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Stasera che mangio, minestrone? mi chiedo qui davanti al computer, da solo, con quindici tab firefox aperti, quattro programmi attivi, mentre tento di bruciare il processore. Il vento sommuove la porta. Durante la notte mi sveglierò al suono dell'albero agitato. Passerò qualche minuto alla finestra, con lo sguardo nel sonno, a vederlo oscillare sconvolto. In cucina cadrà qualcosa che non saprò mai. Dai fagioli salterini del messico nasceranno due falene dall'aria invadente. Si vedranno le montagne, domani. E le cicale furiose...

Al Convegno Annuale dei Letterati si Gozzoviglia fino alle Tre del Mattino, quando anche l'ultimo locale chiude. In cinque o sei dondoliamo per le strade vuote, verso gli alloggi. Poi qualcuno dice qualcosa. Ci giriamo. Tra di noi è apparso un ragazzo in mutande. «Klakw dwrxe?» dice. Ci grattiamo la testa. Cerchiamo di metterlo a fuoco ciondolando avanti e indietro, mentre un vento fresco arriva dall'Austria e alcuni cespugli d'erba secca ci rotolano davanti. «Xwpwk!» dice lui, «Xwpwk!» ripete, con una mano sull'anca, l'altro braccio ripiegato sul petto. E se ne va.

Come quando esco di casa per una gita in montagna e già dopo qualche chilometro da Padova mi viene il dubbio di aver lasciato la caffettiera accesa sul fuoco. E benché io sappia con certezza che non sia possibile, perché non è possibile, perché non dimentico le cose sul fuoco, men che meno le caffettiere, tuttavia prende spazio in me questo pensiero della caffettiera sul fuoco che lentamente si brucia - cola il manico sui fornelli, si squaglia la guarnizione, un fumo sottile invade la parte bassa dell’appartamento - e magari, a un certo punto, esplode, gratuitamente, appiccando fuoco qua e là, in piccoli incendi da poco, che però si alimentano dei chili di carta che io e Giovanna accumuliamo giorno dopo giorno, tanto che ci vuole un attimo perché si accenda un rogo, un rogo immenso, implacabile, insaziabile e divorante che in alcuni istanti si propaga per tutto il condominio, arricciando le piante, mozzicando il legno, facendo esplodere i vetri e gli occhi degli inquilini, levando un fumo nero, denso, visibile dallo spazio a occhio nudo, come la muraglia cinese - allo stesso modo mi sento a questi convegni, quando le persone mi parlano - pensando che io sappia dell'argomento su cui scrivo la tesi tutto lo scibile - e pretendono che sia in grado di fare discorsi sensati quando lo sanno tutti che non so fare discorsi sensati e che è meglio lasciarmi perdere e anzi, piuttosto di fare discorsi sensati annuisco, balbetto, formulo giudizi inammissibili e all’improvviso cerco di parlare del tempo.

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o
Novembre 1936 – paul éluard (traduzione: Franco Fortini) Guardateli al lavoro i costruttori di macerie sono ricchi pazienti neri ordinati idioti ma fanno quel che possono per esser soli al mondo stanno agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco piegano fino a terra palazzi senza capo. A tutto ci si abitua ma a questi uccelli di piombo no ma non al loro odio per tutto quel che luccica non a lasciarli passare. Parlate del cielo e il cielo si vuota poco ci importa l’autunno i nostri padroni hanno pestato i piedi noi l’abbiamo dimenticato l’autunno dimenticheremo i padroni. Città secca oceano d’una goccia scampata di un unico diamante coltivato alla luce Madrid città fraterna a chi ha patito lo spaventoso bene che nega essere esempio a chi ha patito l’angoscia indispensabile perché splenda quel bene. E alla sua verità salga la bocca raro alito sorriso come rotta catena e l’uomo liberato dal suo passato assurdo levi innanzi ai fratelli un volto eguale