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“Adesso si gira e mi saluta.”
“Vai tu a salutarla.”
“Ma no, non ho niente da dirle.”
“E allora? Vai lì, la saluti. Fine.”
“No, no. Adesso si gira lei e mi saluta lei.”

La prima sera è pieno di ombrelli.
Piove e non piove, tanto che eravamo indecisi se venire al cinema. Davanti a noi c’è una signora con un ombrello bianco e nero. Inizia il film, la pioggia non smette, gli ombrelli rimangono aperti. Da dietro si sentono le urla di chi non riesce a vedere lo schermo: “Chiudete gli ombrelli!”“Non si vede!”; ma la signora, per dirne una, rimane impassibile, non si volta neppure. Sta ferma. Guarda dritta davanti a sé, come se non sentisse. Ci sono ombrelli dappertutto, comunque. E un signore di fianco a noi si è tolto la maglietta e se l’è messa in testa. Rimane in canottiera.

Da quattro giorni mangio solo piadine, stracchino e pomodori. Non so se sono io che ho preso il colore dello stracchino o il contrario. Veramente trovo delle somiglianze, tra me e lo stracchino, a tratti preoccupanti. Ho il sospetto che la qualità della mia alimentazione non potrà che peggiorare, in questi giorni di isolamento. Fosse solo per questo starei tranquillo, ma certi pomeriggi mi colpisce a tradimento il carattere ipnotico delle televendite di tappeti.

E’ passato un mese e mezzo da quando Ale - l’altro Ale; AleP per intenderci - è partito per Santiago. Nessuno ha più notizie. Le conversazioni da qualche giorno cominciano tutte così: “Notizie dal pellegrinaggio?” oppure “Si sa niente del camminatore?”. Non sappiamo se è ancora via, se è tornato e si è isolato o se ha deviato da qualche parte in Spagna e ha aperto un bar. Tra poco potrei iniziare a preoccuparmi. A quel punto questo blog si trasformerà in una succursale di chi l’ha visto.

“Ma ti piace?”
“Sì, è carina.”
“A me pare brutta.”
“No, a me piace.”
“Allora va a salutarla.”
“Ma che le dico… E poi ha già il moroso.”
“E allora? Vai lì e…”
“Aspetta! Si è alzata! E’ meglio se sto seduto e la fisso o sto in piedi di tre quarti che parlo con te?”

Questo è tutto ciò che faccio: sbando.

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o
Novembre 1936 – paul éluard (traduzione: Franco Fortini) Guardateli al lavoro i costruttori di macerie sono ricchi pazienti neri ordinati idioti ma fanno quel che possono per esser soli al mondo stanno agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco piegano fino a terra palazzi senza capo. A tutto ci si abitua ma a questi uccelli di piombo no ma non al loro odio per tutto quel che luccica non a lasciarli passare. Parlate del cielo e il cielo si vuota poco ci importa l’autunno i nostri padroni hanno pestato i piedi noi l’abbiamo dimenticato l’autunno dimenticheremo i padroni. Città secca oceano d’una goccia scampata di un unico diamante coltivato alla luce Madrid città fraterna a chi ha patito lo spaventoso bene che nega essere esempio a chi ha patito l’angoscia indispensabile perché splenda quel bene. E alla sua verità salga la bocca raro alito sorriso come rotta catena e l’uomo liberato dal suo passato assurdo levi innanzi ai fratelli un volto eguale