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Mio nipote

Mio nipote non è un bambino, è una macchina per le scoregge. Gli tocchi la pancia, scoreggia. Gli tocchi un piede, scoreggia. Gli batti una mano, scoreggia. Gli accarezzi la testa, scoreggia. Ti sembra che ti stia sorridendo (Ooooh sta sorridendo) e invece sta solo torcendo la faccia per lo sforzo di scoreggiare. Gli sorridi, scoreggia. Gli canti una canzone, scoreggia. Dorme, scoreggia. Scoreggia, scoreggia.
Più che Emiliano, d'ora in poi lo chiamerò Zeppelin.

Inglese, internet, itterizia

Per rispetto della privacy, al posto dei nomi dei tre protagonisti di questo episodio - due laureati e uno quasi - userò delle sigle in modo da rendere irriconoscibile la loro identità: X, Y, Z.

Più o meno le otto di sera.
Un bar gestito da cinesi.
Grado alcolico: uno spriz (quindi: quasi sobri).

- Allora Z, com’è quel disco dei Wire?
- Bello. Bello. Stupendo!
- Sì, ma che vuol dire Wire?
- Wire? Wire vuol dire filo… cavo elettrico.
- Ah sì? Io ho sempre pensato che volesse dire spire.
- Spire?
- Ma cosa dite? Wire non significa mica filo.
- Come no, hai presente gli oggetti wireless? Senza filo, significa
- Noo, non si dice wireless: si dice cordless; Wire è un’altra cosa
- Cioè?
- [mimando una specie di cubo di rubik] Wire è un oggetto meccanico... un meccanismo.
- Io pensavo volesse dire spire, come le spire del cobra [sibila, e alza la mano, atteggiando le dita come fossero zanne]
- Sì, le spire arricciate come quelle del cavo del telefono!
- No, no, scusate, sono sicuro che wire significa meccanismo.

- Ah, be’ se lo dici tu.
- Sei sicuro che non vuol dire spire? Sicuro?
- [Incrocia le braccia, chiude gli occhi, annuisce]

Wire: filo; (ELEC) filo elettrico.

Mio zio

Mio zio è morto qualche anno fa, schiacciato da un armadio, o qualcosa del genere. Non ho mai capito cosa gli è successo, ma ho stampata in testa un’immagine di lui che attende a braccia aperte un oggetto pesante e, dall’alto, questo oggetto – un oggetto di legno chiaro - gli precipita addosso e lo schiaccia. Naturalmente non l’ho mai vista questa scena, l’ho sempre e solo immaginata, unendo gli indizi raccolti nei pochissimi racconti circolati in famiglia dopo la sua morte. Del funerale ricordo il prete, vestito di bianco, che a metà della funzione, agitato e quasi paonazzo, comincia un’invettiva contro l’aborto. Ricordo anche altre cose, ma non ho voglia di raccontarle. Tutto questo, mi è tornato in mente d’improvviso stamattina, dopo aver sognato mio zio che mi parlava. Aveva, come sempre, un’irrittante somiglianza con Bud Spencer, ma, vicino alle tempie, gli si erano arricciate le sopracciglia verso l’alto. Continuo a pensare che forse dovrei giocare qualche numero al lotto, ma, oltre al quarantasette, non so bene su quali altri puntare.

Stamattina fuori dal portone, sul marciapiede proprio davanti a casa mia, c’era una striscia rossa che aveva tutta l’aria di una scia di sangue. Proseguiva, barcollando, fin dentro al vicolo, poi spariva nel nulla.

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o
Novembre 1936 – paul éluard (traduzione: Franco Fortini) Guardateli al lavoro i costruttori di macerie sono ricchi pazienti neri ordinati idioti ma fanno quel che possono per esser soli al mondo stanno agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco piegano fino a terra palazzi senza capo. A tutto ci si abitua ma a questi uccelli di piombo no ma non al loro odio per tutto quel che luccica non a lasciarli passare. Parlate del cielo e il cielo si vuota poco ci importa l’autunno i nostri padroni hanno pestato i piedi noi l’abbiamo dimenticato l’autunno dimenticheremo i padroni. Città secca oceano d’una goccia scampata di un unico diamante coltivato alla luce Madrid città fraterna a chi ha patito lo spaventoso bene che nega essere esempio a chi ha patito l’angoscia indispensabile perché splenda quel bene. E alla sua verità salga la bocca raro alito sorriso come rotta catena e l’uomo liberato dal suo passato assurdo levi innanzi ai fratelli un volto eguale