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Vado a Parigi, poi torno
Qui, intanto, una vecchia cosa.
Ciao

PISTACCHI
(un racconto)

E poi, da Mortimer, scoprii che fine aveva fatto il gatto - Pipino si chiamava - o almeno così pensai: che lui, Mortimer, se l’era mangiato e ce l’aveva pure offerto: come fosse stato del coniglio. “Volete del coniglio?” ci aveva detto. “Io ne ho troppo e non lo mangio.” Così, come se fosse stato niente. E si era tenuto anche il collare, in un cassetto: in cucina... tra un coltello e l’altro: Pipino, c’era scritto in rosso, e ce n’erano altri, quasi tutti anonimi, o con campanelli e targhette di riconoscimento, e indirizzi. E lo scoprii per caso, mentre lui al telefono cercava mia madre, perché il braccio, eh sì, me l’ero rotto... cadendo da quell’albero. Avesse saputo! che stavo spiando lui: lui: lui... Mortimer!...
Mortimer: un mistero... Sempre in giacca e farfallino; bassoccio; il viso magro; aveva un dente d’argento: un incisivo. Mia sorella mi diceva che era un Diavolo: che aveva una fornace in casa e tutti i mobili di vetro. D’altronde, con una fornace in casa, poteva pure soffiarseli da solo, e costruire quel che voleva, e buttare giù all’inferno chiunque volesse, così, da un momento all’altro: pure te, diceva mia sorella, magari offrendoti prima un coniglio un po’ drogato (o un gatto...) per addormentarti e poi... zac! buttarti tra le fiamme. Mia sorella diceva che lui, Mortimer, faceva sfide, contratti, cose serie: firmati col sangue: scommesse: e se perdevi, be’, gli davi una gamba... un polmone... il cuore... a seconda.
E me l’ero anche sognato, un giorno, che avevo perso un braccio e ritornavo a casa, pensando: “E adesso? Cosa dico a mamma? come lo nascondo?” E non riuscivo a respirare: avevo l’ansia; perché sapevo che mia madre si sarebbe lamentata, sarebbe andata al piano di sopra, da Mortimer, a reclamare e io mi sarei sentito in imbarazzo: insomma: una sfida è una sfida, e se perdi non puoi mica mandare la mamma a riprenderti quel braccio; tanto più che l’avrà buttato già nel fuoco, mi dicevo nel mio sogno. Ma comunque l’angoscia era tale che rimanevo davanti a casa senza il coraggio di suonare il campanello, cercando di tenere un contegno da due braccia: l’equilibrio, il portamento e tutto il resto; e sulle scale si faceva buio e rimaneva solo la porta che si apriva di scatto e usciva Cecchi, il portiere, con la faccia grassa e grande, immensa, e mi rideva addosso chiamandomi merdina: merdina: sei proprio una merdina. Come al solito del resto. In tutti gli incubi era lì, Cecchi, il suoi faccione, e all’inizio non lo riconoscevo, ma poi da sveglio ricordavo e capivo che era lui, proprio lui, che mi inseguiva, truccato da pagliaccio, a volte, o peggio, senza trucco, solo il volto: grande... brufoloso... invadente... viscido... umidiccio... come cera sfatta e sciolta. Ma Cecchi non era cattivo, diceva mamma, solo un po’ stupido e ruffiano, e i lavori li faceva tutti e subito e anche bene, e noi ragazzi non si doveva infastidirlo con le urla, con i giochi, con gli scherzi. Dovevamo dargli retta, anzi, se diceva qualche cosa, starlo ad ascoltare; non rispondergli indietro, ubbidire: comportarci in maniera educata.
Mia sorella non ne era convinta: per lei Cecchi era un infamone, uno che in ogni modo cercava di uccidere Pipino, di farlo scappare, perché odiava gli animali: lo avevamo visto spesso tirare sassi addosso a cani e gatti che gli passavano davanti; oppure, se era di cattivo umore, lo avevamo sorpreso a lanciare in testa ai piccioni manciate di pistacchi; i suoi pistacchi amati, che mai avrebbe sprecato normalmente, quelli che portava sempre appresso a sgranocchiare sul lavoro, i cui gusci lasciava in giro come una traccia da seguire: e mia madre ci provava in ogni modo a dirgli: “Guardi, scusi, ma lei i gusci di pistacchio... non può tenerli in tasca? Insomma...” Lui chinava la testa, diceva: “Sì, certo signora, ha ragione”. Ma poi...

Quando mio nonno morì - era il 1986 - mia madre dovette andare al funerale a Roma e stare qualche giorno dai parenti. E il gatto fu affidato a lui, a lui! Di tutte le persone il più indicato! E non potevamo farci nulla, noi ragazzi, perché eravamo al mare, inconsapevoli di quel che si tramava in casa: di lasciare Pipino al mostro che incombeva nei miei incubi peggiori, quello che mi sghignazzava in faccia ogni volta mi vedesse; quello che offriva a mia sorella i suoi pistacchi, porgendole la mano e dicendo: “Vuoi il pistacchio? Eh? Lo vuoi?... Certo che lo vuoi... Lo so che lo vuoi...”
Quando tornammo a Padova, ovviamente, Pipino era scappato; da una finestra o da un balcone non si sa: certo è che un giorno Cecchi rientrò in casa e disse: “Oibò! Ho perso il gatto. Che sfortuna!”. E avevamo poco da lamentarci e da recriminare, diceva mamma, perché non era certo colpa sua se il nostro gatto era irrequieto, se aveva bisogno di spazi aperti, se era così nomade: era solo colpa nostra s’era scappato, che l’avevamo educato a quel modo, che non avevamo voluto farlo castrare... E se poi fossimo andati a litigare, sapevamo che Cecchi ci avrebbe riso in faccia e ci avrebbe detto: “Be’, potevate darlo a qualcun’altro da tenere, no?”
No?
Certo! L’avremmo fatto subito, se avessimo potuto! L’avremmo dato pure a Mortimer, quel gatto, anche se lui era il Demonio, anche se erano solo due mesi che ci era venuto ad abitare sopra ed era misterioso e tutto il resto; ma almeno Mortimer era gentile: e aveva sì quel dente d’argento, ma ci offriva spesso della carne da mangiare, carne buona, cucinata bene soprattutto, e di un sapore strano: verso sera, ogni tanto, scendeva da mia madre e le diceva: “Guardi, ho fatto questo pollo; questi involtini di coniglio; queste bistecche di cavallo, ma ne ho fatte troppe e non ho il frigo, non posso conservarle: non ne vuole un po’ per lei, per i suoi figli?” E mia madre, che era stanca dal lavoro e non voleva cucinare, subito accettava: “Certo, grazie; grazie signor X!”.
Naturalmente, Mortimer non si chiamava Mortimer davvero. Mi sembra si chiamasse Ernesto o Alberto; ma un Demone che si rispetti non può essere un Ernesto, men che meno Alberto, e c’erano pochi dubbi che non fosse un Demone: insomma, basti il fatto che non avesse il frigo (il frigo!) e che mai e mai lo vedemmo uscire da casa prima delle sei di sera e ritornare dopo le otto di mattina, stanco e affaticato... Di pomeriggio non si poteva far rumore, perché Mortimer dormiva, perché aveva un lavoro notturno... forse a un casello autostradale... o forse - e più probabilmente - custode di un qualche cimitero...
Solo una cosa era certa: si doveva investigare, capire chi o cosa fosse questo uomo - se di uomo si trattava. Davanti al balcone del salotto di Mortimer cresceva una magnolia: alta e verde, dai rami grossi come tronchi e le foglie dure; mia sorella ed io facevamo a gara per salire, arrampicarci, a chi andava più in alto, chi raggiungeva la cima, chi riusciva a vedere i mobili di vetro - che poi, è ovvio, non esistevano per niente, ed erano una balla di mia sorella e lo scoprii per caso, quando caddi da un ramo, perché Cecchi m’aveva sorpreso, e Mortimer venne ad aiutarmi che mi ero ferito e avevo fatto un rumore d’inferno. Quella volta mi fece salire in casa sua, mi guardò il braccio e dichiarò, coll’incisivo scintillante: “Scommetto che si è rotto...”
“No!”, urlai io, “Non scommetto!” Lui mi guardò attentamente e chiese: “Stai bene? Dov’è tua sorella? E tua mamma? Posso telefonarle da qualche parte?” Gli diedi un paio di numeri ai quali poterla rintracciare e lui mi portò in cucina. Mi riempì una tazza di thè a temperatura ambiente, che aveva fatto lui e mi disse: “E’ un poco amaro”. Mi passò velocemente una scatola di zollette e se ne andò a telefonare. Ma non mi aveva dato il cucchiaino: così, mentre ero solo, decisi di osservare in giro: aprii un cassetto qui, uno lì, piano e lentamente, senza alcun rumore, con paura di trovare fegati o cuori ancora pulsanti o gambe appena strappate, o litri di sangue rappreso;
... e aprii il cassetto coi collari...
Penso li tenesse tutti come dei feticci o trofei di caccia, perché ce n’erano tantissimi e vari e c’erano anche un paio di guinzagli. Vidi subito il collare di Pipino, lo presi in mano, lo rigirai, lo guardai bene, senza capire esattamente cosa ci facesse in quello strano posto... poi sentii che Mortimer metteva giù il telefono e che tornava a prendermi...
Chiusi tutto in fretta, sedendomi al mio posto, esibendo indifferenza, mi misi a bere il thè.
A quel punto Mortimer mi disse: “Adesso ti porto al pronto soccorso. Non dovresti salire su quell’albero, lo sai? E’ pericoloso... Non te l’ha mai detto il signor Cecchi?”
Certo che me l’aveva detto, me lo diceva sempre, ogni volta che mi vedeva su quei rami a dondolarmi appeso per le gambe, o quando mi lanciavo da una parte all’altra, aggrappandomi dove potevo, o cadendo rovinosamente a terra; mi vedeva Cecchi e mi diceva: “Via di lì, merdina. Che rompi i rami! Mi rovini l’albero! Scendi subito!”
E se io dicevo qualche cosa a mia madre - che lui mi chiamava merdina, per esempio - lei andava a parlargli e lui... negava, chinava la testa, si mangiava un pistacchio... poi fermava mia sorella di nascosto e le diceva: “Dì a quel tuo fratello lì che si faranno i conti prima o poi... oh, se si faranno!” e rideva e se ne andava...

Si faranno i conti prima o poi...
oh! se si faranno...

Quel giorno poi ero solo. Mia sorella aveva scuola il pomeriggio, mia madre era andata a lavorare. Io presi un mazzo di chiavi e uscii. Era ottobre; Pipino si era perso (era stato divorato) da un paio di mesi o poco più. Non avevo niente da fare e non c’era nessuno in giro. Cominciai a scalare la magnolia, poco per volta, con attenzione: un piede lì, un braccio su quel ramo, attento, quello è fragile, quello è ingombrante, toglilo, riposati un po’, dòndolati, ecco... continua... ora: un poco più su, ancora... Piano... concentrati... Ci sei quasi... Ecco... il balcone: li vedi quasi: i mobili di vetro... vedi già un riflesso... dài... ecco... quasi... ci sei...
Poi sentii un rumore e mi girai di scatto: Cecchi era là sotto ad osservarmi e aveva gli occhi spalancati.
Mi sbilanciai sorpreso e persi l’equilibrio, appoggiai una mano su un ramo che si ruppe e scivolai. Finii a terra sbatacchiando qua e là: caddi sulla spalla, su di un fianco; sentii un rumore strano e poi bruciore un po’ dovunque e non muovevo il braccio. Ero a terra e non riuscivo ad alzarmi: e Cecchi era sopra di me con la sua ombra.
Avvicinò il faccione sudaticcio e sussurrò: “Non te l’avevo detto di stare buono? Di non salire sull’albero? Non te l’avevo detto?”
Mi spinse un poco con la punta di un piede. Si mise a ridacchiare: “Sei proprio una merdina.”
Prese un pistacchio, lo aprì e se lo mangiò.
Lasciò che i gusci mi cadessero in faccia. “Un buono a nulla.” disse senza guardarmi.
Poi cominciò a ridere, e se ne andò ridendo.

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