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Visualizzazione dei post da settembre, 2003
Mi svegliavo a intermittenza. Dalla finestra aperta mi arrivavano gli echi degli allarmi. Alle cinque di mattina, mia sorella discuteva con suo marito: “Non c’è luce”, diceva. Di lui sentivo solo il suono della voce, ma non decifravo le parole. Alle cinque e mezza l’ho sentita dire: “La luce non è ancora tornata”. La prima cosa che ho pensato, da semi-lucido, è stata: “Che cosa ha combinato mia madre, stavolta?”. Io e mia sorella, poco dopo, ci siamo incontrati in cucina. Lei col pancione – è incinta, all’ottavo mese - io nel tentativo di ristabilire l’elettricità. “E’ tutto il quartiere che è al buio.” mi ha detto. Sapere che il black out non era solo una questione di casa nostra, non mi convinse dell’innocenza di mia madre, anzi. Nel pomeriggio scoprii che mia sorella aveva pensato la stessa cosa, quasi con le stesse parole. Tuttora non siamo sicuri che lei non c'entri nulla. Il che - a parte dar conto, forse , di una sottile malafede - fa capire di quali catastrofi riteniamo c
Quando ho urlato, non l’ho fatto perché avessi paura. Non ero terrorizzato. Non mi stava venendo la pelle d’oca e la gelatina nello stomaco. No. I miei nervi erano perfettamente sotto controllo. Immobili. Cavi d’acciaio, praticamente, quelli dei ponti, o degli ascensori. Ho gridato “C’è nessuno?”. Ho accelerato il passo. Il mio cuore non stava battendo più forte. No, si era rallentato in una calma gelida e impassibile. Le stanze buie della biblioteca, i tavoli vuoti, i libri sugli scaffali, tutto questo non mi ricordava una tomba, se qualcuno se lo stesse chiedendo. Girare da solo per i corridoi, col computer a tracolla e un quaderno in mano, gridando “C’è nessuno?”, pensando “Non c’è più nessuno.”, non mi ricordava Shining. No. No no. No no no. No no no no no. E neppure accorgersi che la porta a vetri era chiusa a chiave, e che davanti mi passavano gli ultimi studenti, senza vedermi. Mi dicevo anzi: ma che bello restare qua, nel fine settimana, tra i libri; ma che bello, c’è anche int
Tu non ci crederai, ma a tratti, di solito per strada - mentre pedalo o cammino - in quella zona della testa giusto a metà tra i cervello e il naso, nel retro degli occhi per intenderci, quel posto piatto dove si stampano le immagini, mi compare quella foto di te dove sei appoggiata a una balaustra di legno e hai i jeans stretti alle caviglie, i capelli raccolti a treccia e una felpa che, se anche mi sforzo, non posso fare a meno di ricordare come una felpa della best company. Continuo a rischiare incidenti.
L’orecchio sinistro ha deciso di sua spontanea volontà di non funzionare più. Parlate più forte per favore. 8.00 a.m. Sabato mattina. Rumori di pentole. Un frullatore. Lavapiatti che si svuota. Fornelli accesi. Mi alzo. Mi gira la testa. Chiedo a mia madre cosa sta facendo. Cucino, dice. A quest’ora? Be’? Sono le dieci, dice. I miei occhi si muovono prima sulla sveglia bianca – lancette fosforescenti – poi su mia madre – capelli rossi. Orologio. Madre. Lancette, capelli rossi. Capelli rossi, lancette. Lancette, capelli rossi. Capelli rossi, lancette. Oh, ma guarda, dicono i capelli rossi. Sono le otto! Il sonno mi inibisce le sinapsi omicide, purtroppo. 6.00 a.m. Sabato mattina. Canto per tentare di mantenere sveglio Ale che guida. Dovrei parlare, dire qualcosa di interessante, ma tutto ciò che faccio è cantare i Tribalistas. Ale è quasi appoggiato al volante, con gli occhi mezzi chiusi. Dice di vedere la strada doppia. 5.30 a.m. Sabato mattina. Nel parcheggio di una banca
Mi sveglio. Mi trascino in cucina. Mi accorgo di lasciare una traccia grigia sul pavimento. Arriva mia madre. Ha in mano la scopa e la paletta. Mi colpisce con la scopa per farmi salire sulla paletta. Colpisce velocemente. Ehi! dico Lei si china, mi guarda: Ale? Sì, dico. Sei tu? chiede. Sì. Sei proprio tu? Sìiii. E allontana quella scopa, per favore, che mi fa paura. Ma sei un mucchietto di cenere, dice. Non le rispondo. Cerco di arrampicarmi sulla sedia. Ma ogni volta che ci provo perdo troppa consistenza. Aspetta, mi fa. Mi colpisce piano con la scopa, mi mette sulla paletta. Mi solleva e mi fa ricadere sul tavolo. Poi con le mani spinge i mucchietti di cenere dispersi verso di me. Grazie, le dico. Ma cosa è successo? Un fulmine. Un fulmine? Ieri sera. All’improvviso. Zap. Un fulmine. Mi ha centrato in pieno. Ma come è successo? Eravamo al Santo, io e Ale. Stavamo chiacchierando. A un certo punto gli ho raccontato una delle mie paranoie. Gli ho detto - come sche
Chiudo il garage. Il mio vicino sta entrando in casa. Mi vede, mi saluta. E' un uomo basso, magro. Avrà settant'anni. - Torni o vai? - mi fa - Torno, torno - dico - Eh, ma sei proprio un girellone - dice Non ho saputo rispondere. (e ieri nel vicolo un topo m'ha attraversato la strada)
Quando alla radio passano Paradise City dei Guns’n’Roses non posso fare a meno di pensare a che musica di merda ascoltavo dieci anni fa. Take me down to the Paradise City where the grass is green and the girls are pretty. Mi rimane la soddisfazione di non aver mai comprato originale Use your illusion, con quelle canzoni ruffianissime, con quei video pacchiani pieni di modelle strafighe attorno a quel simobolo della pura mostruosità che è, che era, Axl Roses – a partire dalla voce. Cantavamo i Guns’n’roses come difesa, come per resistere, io e Christian. Avevo anche comprato una maglietta orribile con un teschio enorme sul davanti. Ce l’ho ancora. Christian era tedesco, di Brema, ma non lo diceva mai, perché tanto gli americani se gli dici Brema ti chiedono: and where the fuck is? E se anche gli dici che è vicino ad Amburgo, loro annuiscono, perché il nome magari l’hanno sentito nominare, ma sulla carta gli è oscuro come prima. Una ragazza davanti a me, nell’aula di chimica, mi chies
Cretino, ti dici. Cretino, demente, coglione. Cretino, demente, coglione, mona. Deficiente, ti dici. Imbecille, cretino, demente, minorato mentale. Cretino, demente, imbecille, demente, cretino, errore genetico. Ti dici. Cretino, mona, cretino, imbecille, cretino, minorato genetico, cretino, errore mentale, ti dici. E mentre ti dici tutto ciò – cretino, mona, imbecille, coglione - cammini con l’ombrello in mano, l’altra mano alla cintola dei pantaloni troppo larghi, che ti ostini a portare senza cintura. Ti cadono continuamente, sono di duecento taglie troppo grandi e ti ostini, cretino, deficiente, mongoloide, ti ostini a portarli senza cintura. E piove e sono le undici di notte e attorno non c’è nessuno: ci sei solo tu, da solo, che guardi per terra, cammini e ti insulti, non solo per i pantaloni cadenti, ma anche perché da due giorni, dopo mesi, sei tornato a sentirti a disagio con te stesso. (Cretino) Per di più, da un momento all’altro, ti invade lo spirito santo della paranoia
Tenore della conversazione di ieri sera. - Io a Cristina Aguileira ci piscerei addosso. Davvero. - Ogni volta che vedo gli Mtv Music Awards vorrei essere un terrorista. - Ma è possibile che il papa abbia sempre qualcosa da dire su tutto e non dica niente di Michael Jackson? - Ma se uno dorme in una camera iperbarica, come fa quando deve andare a cagare?
PAROLE CROCIATE SENZA SCHEMA Orizzontali 1. Media di ore dormite negli ultimi quattro giorni. (Tre lettere. La prima è T. L’ultima è E.) 2. Profondità delle occhiaie. Sedici lettere. (Inizia per DIEC. Finisce per TIMETRI.) 3. Grado di allucinazione raggiunto. (INSONDABILE.) Se ci penso - se penso al dolore, se penso a dare una forma al dolore, una oggettività, un contorno, dei confini, dei margini; se provo a concretizzare il dolore in un luogo, in una cosa , se penso a una cosa che manifesti il dolore, che lo descriva - se immagino il dolore come una forma, come un volume, un peso, come una densità; se cerco di descrivere il dolore nei termini di misura, lunghezza, larghezza, profondità... se organizzo sulla libreria o su uno scaffale uno spazio vuoto in cui inserire il dolore, l’oggetto dolore; se tento di scardinare il dolore e di trovarne il nucleo, il colore, l’odore, la consistenza; se penso al dolore: io al dolore non so dare forma. (Per anni
Questa casa è diventata il regno della dislocazione - dici a voce alta, camminando tra gli oggetti sparsi al suolo. Stai lentamente espandendo il concetto di casino, spostandone l’orizzonte sempre più lontano - tanto da far apparire il passaggio di un tornado come un semplice riorganizzazione ambientale, rispetto al caos che stai creando in casa, senza neppure troppa difficoltà. Ricapitoliamo? Ricapitoliamo. Come c’è finita una bottiglia d’acqua sull’ultimo scaffale della libreria di tuo padre, tra il secondo volume della storia del partito comunista e la Storia della Rivoluzione Russa di Trotzky? Che ci fa il pupazzo gonfiabile a figura umana dell’Uomo Ragno - quello che ti ha regalato tuo fratello per il compleanno e che tua madre ti ha espropriato per piazzarlo in salotto - disteso sul tavolo della cucina? Ma soprattutto: come ha fatto un paio di tue mutande a finire in camera di tua sorella, quando in camera di tua sorella tu non ci vai mai, e la porta è sempre chiusa? eh? co