Quando ho urlato, non l’ho fatto perché avessi paura. Non ero terrorizzato. Non mi stava venendo la pelle d’oca e la gelatina nello stomaco. No. I miei nervi erano perfettamente sotto controllo. Immobili. Cavi d’acciaio, praticamente, quelli dei ponti, o degli ascensori. Ho gridato “C’è nessuno?”. Ho accelerato il passo. Il mio cuore non stava battendo più forte. No, si era rallentato in una calma gelida e impassibile. Le stanze buie della biblioteca, i tavoli vuoti, i libri sugli scaffali, tutto questo non mi ricordava una tomba, se qualcuno se lo stesse chiedendo. Girare da solo per i corridoi, col computer a tracolla e un quaderno in mano, gridando “C’è nessuno?”, pensando “Non c’è più nessuno.”, non mi ricordava Shining. No. No no. No no no. No no no no no. E neppure accorgersi che la porta a vetri era chiusa a chiave, e che davanti mi passavano gli ultimi studenti, senza vedermi. Mi dicevo anzi: ma che bello restare qua, nel fine settimana, tra i libri; ma che bello, c’è anche internet; stare tra i corridoi vuoti, scombinare i computer della biblioteca, aprire tutti i Meridiani, i libri rari, i manoscritti; pensavo: ma che bello, è la volta che finisco la tesi per davvero.
Poi in mente mi si è stampata la parola cibo: ho iniziato a urlare.
Poi in mente mi si è stampata la parola cibo: ho iniziato a urlare.