Wladimir Koppen infilò l'orologio nella tasca della marsina. Era quasi l'ora di far ascendere il pallone aereostatico. Il temporale avrebbe fornito dati interessanti. Ritornò al lavoro di classificazione dei climi, ma con poca concentrazione. Da qualche giorno sentiva come una strana febbricciola, una svagatezza mentale che non gli apparteneva. Fraulein Ilda, in giardino - le mani sui fianchi in quella posizione che le era così tipica - controllava il cielo, grigio, carico: le sembrava il coperchio di una pentola sceso apposta per rinchiudere ermeticamente il mondo. Sperava che almeno non grandinasse, perché non voleva salire di nuovo in città, dal vetraio. Non per altro: quell'uomo così allampanato e pulito, di origine italiana, aveva la tendenza a parlare per ore e ore solo di cibo. Fraulein Ilda non aveva tempo da perdere, aveva ancora tutti i lavori di cucito e pulizia da finire prima dell'inverno - e quella mania di Herr Koppen di stipare la casa di piante non aiutava di certo. In più, la sorella minore aveva appena partorito il quinto maschio della stirpe Forst, un essere di due chili e mezzo, vorace e rotondo. Senza dubbio le avrebbe chiesto aiuto. Koppen, intanto, rileggeva sull'enorme quaderno nero, nello studio, quello che aveva scritto il giorno prima, dopo una partita di calcetto: «Clima di classe A, tipo fehlt: tropicale senza stagione secca». Si compiacque immediatamente della propria professionalità terminologica e si strofinò la barba: «Questo devo leggerlo a Fraulein Ilda! Ah, come le piacerà: clima tropicale senza stagione secca! Senta, senta Fraulein: clima caratterizzato (caratterizzato! dirà lei, che belle parole conosce Herr Koppen!) da temperature elevate, con moderata escursione termica annua e mensile, e frequenti precipitazioni, con calma quasi assoluta di vento, che - mi stia bene a sentire adesso, Fraulein - che chiameremo calma equatoriale. Calma equatoriale, Fraulein! Non le sembra fantastico? non è eccezionale? sublime?», pensava gongolando al tavolo da lavoro.
«Herr Koppen!» Koppen sussultò, le mani ancora imbrogliate nella barba «Si sposti» disse Ilda «che devo pulire lo studio» «Fraulein, ma sto lavorando...» «Non importa, continuerà dopo, sono settimane che non entro in questa stanza» rispose lei. Koppen scese dallo sgabello e la guardò, come al solito, dal basso verso l'alto «Vuole almeno sentire cosa ho scritto ieri?» «Dopo, dopo, Herr Koppen, adesso ho da fare» Wladimir Koppen uscì dallo studio, verso lo sgabuzzino dove era riposto il pallone aereostatico per i rilevamenti nelle zone alte dell'atmosfera.
Ero in porta. D* si era procurato, per la squadra, delle casacche gialle - di un giallo chimico, da evidenziatore. L'entusiasmo per la divisa nuova ci aveva abbandonato già dopo due minuti, da quando, cioè, ci eravamo resi conto che erano sintetiche: il sudore non traspirava e favoriva, piuttosto, sotto le magliette, la creazione di un ecosistema afoso e di una foresta pluviale. Pensavo che D* le avesse scelte apposta, non tanto per il costo contenuto, quanto per le proprietà dimagranti - un po' come quei pantaloni di cui, a volte, si vedono le pubblicità nelle televisioni locali. «Tutto questo sudore mi rende svogliato», dissi a voce alta, ma erano tutti dall'altra parte del campo. Da solo, in porta, pensavo a Saba e alla poetica dell'oggetto, al tempo, all'invasione dei minorenni in casa, alle cose che dovevo finire di scrivere e che non finivo, ai telefilm e alla compulsione, alle scadenze; ma il problema, al solito, era che pensavo a tutto questo contemporaneamente, confuso, disordinato: ero il re della simultaneità, ma ero anche il re del sudore; e intanto nominavo le cose che vedevo e sentivo così come avevo imparato di recente da mio nipote - suonavano le campane e dicevo «campane»; qualcuno ai bordi beveva e dicevo «acqua»; vedevo i fari accesi e dicevo «luci»; vedevo il pallone arrivarmi in faccia e dicevo...
«Herr Koppen!» Koppen sussultò, le mani ancora imbrogliate nella barba «Si sposti» disse Ilda «che devo pulire lo studio» «Fraulein, ma sto lavorando...» «Non importa, continuerà dopo, sono settimane che non entro in questa stanza» rispose lei. Koppen scese dallo sgabello e la guardò, come al solito, dal basso verso l'alto «Vuole almeno sentire cosa ho scritto ieri?» «Dopo, dopo, Herr Koppen, adesso ho da fare» Wladimir Koppen uscì dallo studio, verso lo sgabuzzino dove era riposto il pallone aereostatico per i rilevamenti nelle zone alte dell'atmosfera.
Ero in porta. D* si era procurato, per la squadra, delle casacche gialle - di un giallo chimico, da evidenziatore. L'entusiasmo per la divisa nuova ci aveva abbandonato già dopo due minuti, da quando, cioè, ci eravamo resi conto che erano sintetiche: il sudore non traspirava e favoriva, piuttosto, sotto le magliette, la creazione di un ecosistema afoso e di una foresta pluviale. Pensavo che D* le avesse scelte apposta, non tanto per il costo contenuto, quanto per le proprietà dimagranti - un po' come quei pantaloni di cui, a volte, si vedono le pubblicità nelle televisioni locali. «Tutto questo sudore mi rende svogliato», dissi a voce alta, ma erano tutti dall'altra parte del campo. Da solo, in porta, pensavo a Saba e alla poetica dell'oggetto, al tempo, all'invasione dei minorenni in casa, alle cose che dovevo finire di scrivere e che non finivo, ai telefilm e alla compulsione, alle scadenze; ma il problema, al solito, era che pensavo a tutto questo contemporaneamente, confuso, disordinato: ero il re della simultaneità, ma ero anche il re del sudore; e intanto nominavo le cose che vedevo e sentivo così come avevo imparato di recente da mio nipote - suonavano le campane e dicevo «campane»; qualcuno ai bordi beveva e dicevo «acqua»; vedevo i fari accesi e dicevo «luci»; vedevo il pallone arrivarmi in faccia e dicevo...