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L'anno vecchio si è concluso con un incidente in bicicletta, la consegna dell'orrore e una battaglia di neve sopra i tetti padovani - le punte delle dita gelate, rosse, doloranti, dietro ai camini usati per riparo. Per quanto riguarda l'incidente: portavo Giovanna sul manubrio, dava le spalle alla strada - mattina presto, direzione biblioteca - quando all'ingresso della zona pedonale lei non era più sul manubrio, ma di schiena, sul cofano di una macchina ferma. Io invece cercavo di mantenere l'equilibrio. Lei si alza con una piroetta, tastandosi la testa, dicendo Non mi sono fatta niente; io balbetto, le giro in tondo con la bici che zoppica, Davvero non ti sei fatta niente? Davvero? Davvero? Dalla macchina, intanto, escono due individui dai lineamenti vampirici - alti, magri, calvi, orecchie a punta, abiti neri, incisivi acuminati - si sfregano le mani in sollucchero e, quando parlano, le esse sibilano in un risucchio voglioso. L'altro giorno mi sono svegliato alle quattro perché mi sembrava di aver sentito il telefono suonare. Non del tutto cosciente, mi sforzavo di riaddormentarmi, ma una voce continuava a ripetermi: e se fosse un'emergenza? Sono giorni che di notte sogno la morte di qualcuno - persone sempre diverse. Il verbo 'sognare' dà l'idea che sia qualcosa di piacevole, ma non è così. Alzarsi di notte, attraversare i corridoi, il salotto, la cucina. Il lampione irradia un giallo nebbioso in casa, attraverso le tende, crea un'atmosfera vittoriana, come in certi film su Jack lo Squartatore. I fumi degli spari si mischiavano con la nebbia, tutto in torno a noi, al nono piano del condominio, le silhouette della città, i botti; una luce rossa da fumogeno si alzava dal prato della valle, l'aria era come dopo un bombardamento. Era il primo gennaio 2006, avevo la pancia gonfia e non sapevo ancora che l'ultima canzone che avremmo ascoltato prima di andare a dormire sarebbe stata di Cesare Cremonini. Il buon proposito era questo: scrivere di più sul blog - diciamo una volta ogni due giorni circa - e poi chiuderlo col 2007. Il problema è questo: scrivere mi fa stare meglio che non scrivere, ma mettermi a scrivere mi fa stare peggio che non scrivere. Come la mettiamo?

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o
Novembre 1936 – paul éluard (traduzione: Franco Fortini) Guardateli al lavoro i costruttori di macerie sono ricchi pazienti neri ordinati idioti ma fanno quel che possono per esser soli al mondo stanno agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco piegano fino a terra palazzi senza capo. A tutto ci si abitua ma a questi uccelli di piombo no ma non al loro odio per tutto quel che luccica non a lasciarli passare. Parlate del cielo e il cielo si vuota poco ci importa l’autunno i nostri padroni hanno pestato i piedi noi l’abbiamo dimenticato l’autunno dimenticheremo i padroni. Città secca oceano d’una goccia scampata di un unico diamante coltivato alla luce Madrid città fraterna a chi ha patito lo spaventoso bene che nega essere esempio a chi ha patito l’angoscia indispensabile perché splenda quel bene. E alla sua verità salga la bocca raro alito sorriso come rotta catena e l’uomo liberato dal suo passato assurdo levi innanzi ai fratelli un volto eguale