Arriva un'ora di notte in cui sento i rumori. Non i soliti scricchiolii, ma colpi forti come uno spostamento dei mobili. Allora prendo in mano il cellulare, come fosse la mia arma di difesa, mi aggiro accendendo le luci, controllo dalle finestre, striscio sotto il tavolo, apro gli armadi, sposto i vestiti, mi ci intrufolo in mezzo, ascolto, mi chiudo dentro, respiro l'antitarme. Non hanno ancora pulito la chiazza di sangue sulle scale. Io certo non lo farò. Tra l'altro mi attira. Di chi è? Dopo la festa, sabato, verso le cinque, M* vede una chiazza rossa per terra. Stanno andando verso la macchina. «Qualcuno ha rovesciato del vino», dice. E' ancora buio, ma gli strani uccelli mestrini hanno già cominciato a cantare. Ce n'è uno che sembra campionato col computer. «No», dice T*, «non vedi? I tannini sono diversi, è sangue». «Sangue?» dice D*, «a quest'ora? a Mestre?» «Facciamo la prova», dice P*. Con la bottiglia in mano barcolla verso la chiazza, ci versa accanto un po' di vino rosso. Il vino si dilegua subito, il rosso non è così rosso, il liquido è di una densità diversa. Nella strada accanto passano gli spazzini. All'una di notte, sotto la mia finestra, arriva sempre il camion del secco non riciclabile. Non lo vedo, ma si sente sbuffare, la vibrazione dei pistoni, l'aria sembra caricarsi di vapore. Accumulo bottiglie d'acqua in camera, ne avrò sei, sparse tutte a terra, in piedi, attorno alla sedia. Sono appannate come se qualcuno, da dentro, ci stesse respirando. Mi svegliano i rumori più strani. Alle quattro e mezza mi alzo per un colpo. Penso che se ci fosse qualcuno in casa non farebbe rumore. Comunque apro la porta di camera con circospezione. Vado a vedere. E' il camion dei gelati. Un uomo scarica delle casse di gelati davanti all'ingresso del circolo di sotto, aperto tutta la notte. Il barista le porta dentro di corsa, come se le stesse rubando. T*, al telefono, mi racconta del ritorno a casa, sabato. «Davanti all'acquedotto», mi dice, «c'erano due bidoni della carta in fiamme, fiamme altissime, vicino alle macchine... Ma dove sei?» mi chiede, «sento tutto un rimbombo». «Sono nell'armadio», dico. «E che fai nell'armadio». «Aspetto».
UNA QUESTIONE DI LESSICO
(ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?)
Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti.
(tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi )
(...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake.
Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41
Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso".
Posted by brekane at 21.07.04 08:52
Ma le brecane non sono le eriche selvatiche?
Posted by Mro at 21.07.04 18:36
o...