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Visualizzazione dei post da maggio, 2007
Dormo male, faccio fatica ad addormentarmi. In terrazzo ieri abbiamo trovato un’enorme milza caduta da chissà dove. Volevamo cucinarla con le acciughe e la salvia, ma ha cominciato a pulsare, a contorcesi chiedendo pietà. Abbiamo lasciato perdere, anche perché, a dirla tutta, a me le acciughe non piacciono. Lo so. Lo so. Lo so. Sembro ossessionato. Le zanzare. Dio buono, le zanzare. Giovanna appoggia la testa sul cuscino, batte tre volte i denti e via, addormentata. Io sudo in faccia. Mi sento appiccicaticcio. Appena mi distendo, mi prende tutto uno scaldone che... Non c’è nulla da fare. Mi accendo di rosso. Irradio. Se mi agito troppo alla ricerca di una posizione sveglio Giovanna. Allora mi immobilizzo, faccio pensieri da sasso e sudo in faccia. In quei momenti spero nell’effetto carta moschicida, le zanzare che si appoggiano sulle guance e restano invischiate. Invece ronzano. Zanzareggiano. Superbe. Signorili. Come dei gran gagà. Ampie volute attorno all’orecchio. Lenti ronzii in lo
The science of sleep - 1 Così ci troviamo fianco a fianco, da soli, io e questo tizio con le scarpe eleganti. Marroni, lucide: sapete il genere. Avrà il cinquantadue, a occhio. Io non ho la cravatta. Fa troppo caldo, anche se il sole è a mezzo cielo e una brezza (la brezza delle prime ore serali) si infila nelle maniche della giacca. Il tizio si chiama Mavis, è un rappresentante farmaceutico, specializzato in Cialis. La sua camicia sembra ritagliata direttamente da un quadro op-art. «Sai andarci?», mi chiede. Indica l’altalena. «Certo...» rispondo, con una mano sul collo, «più o meno...». «Non fare il modesto», ghigna, «Devi essere bravo, coi polpacci che ti ritrovi...». Mavis si siede a destra, io a sinistra. L’altalena è di acciaio, rossa, alta tre metri circa. Davanti a noi la linea dell’orizzonte è piattissima, come se fossimo al centro di un’enorme pianura. Non c’è niente a ostacolare lo sguardo, se non ai margini qualche albero, qualche cespuglio. Che Mavis sia pericoloso, si ved
Il vento ha spezzato i bracci all’ombrellone, i soliti conti da regolare, immagino. Adesso il riverbero del terrazzo è insopportabile, almeno fino alle sei di sera. Non è bastata la colla millechiodi - neppure per la madia in salotto, la cui anta mi è rimasta in mano il mese scorso - se non ad appiccicarmi il gomito sul pavimento. Pezzi di cute sono ancora là, in sacrificio al dio del bricolage perché abbia pietà di me. Io e Giovanna facciamo a gara su chi usa meno carta igienica. Mentre beviamo orzata tagliata vodka, seduti sulle sdraio, le chiedo se non vuole per caso un rotolo di vantaggio. Mi guarda come si guardano gli sbruffoni. Nel frattempo la salvia della vicina è veramente più verde della nostra: di notte, se non dormo per il ronzare degli insetti (e spesso non dormo per il ronzare degli insetti) progetto di lanciare giù il vaso simulandone il suicidio. Ho già in mente la lettera d’addio, conterrebbe le espressioni declorofillizzazione , solitudine alle radici e il congedo
- Aspetta, fammi riempire la moka di acqua. - No, non si fa il caffè con l’acqua calda. - Cosa? - Ci devi mettere quella fredda, non si fa il caffè con l’acqua calda. - Ma che dici? - Neppure la pasta si fa con l’acqua calda. - Ma poi la scaldo lo stesso, no? - Sì, ma devi partire dall’acqua fredda. - Ma valà... - Vedi? Non hai rispetto per quello che dico. - Non è vero. È che non capisco cosa cambia se poi l’acqua la scaldo lo stesso... - Cambia, te lo assicuro. Me l'ha detto un idraulico. - Un idraulico. - Sì, un idraulico. Hai qualcosa contro gli idraulici? - No, è che non capisco che cosa cambia se... - Ti dico che cambia. E se non ti fidi chiedilo a internet.
Da quando la tracolla si è strappata, giro con le borse di tela di Giovanna. Quella che preferisco proviene da una libreria di Mestre che non ho mai visto, ma di cui fantastico da tempo, attraverso i racconti di chi c’è stato. È una borsa bianca, con un logo circolare grigio e spiegazzato, sotto cui c’è scritto Sancho Panza, libreria d’essai. Con questa borsa, entro da Gigi e Nanda, qui vicino, a prendere il pane. Se non lo vedessi dietro il banco tutti i giorni - se lo incontrassi cioè per strada e dovessi indovinarne il mestiere per gioco - di Gigi direi che è un barbiere, piuttosto che un fornaio: calvo, baffetti sottili e neri, occhi appuntiti, le mani in tasca. Forbici, vorrei urlargli, non pagnotte. Rasoi, non zoccoletti! Spesso lo vedo attraversare la strada e nascondersi tra i portici per fumare di nascosto. In quei momenti sbircia con nervosismo l’entrata del negozio, sperando che nessuno entri prima di aver superato la metà della sigaretta. Nanda è bionda, uno sguardo sottile
Ai funerali c'è sempre qualcuno che, guardando la bara, ti chiede: "E invece tu come stai?"