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The science of sleep - 1

Così ci troviamo fianco a fianco, da soli, io e questo tizio con le scarpe eleganti. Marroni, lucide: sapete il genere. Avrà il cinquantadue, a occhio. Io non ho la cravatta. Fa troppo caldo, anche se il sole è a mezzo cielo e una brezza (la brezza delle prime ore serali) si infila nelle maniche della giacca. Il tizio si chiama Mavis, è un rappresentante farmaceutico, specializzato in Cialis. La sua camicia sembra ritagliata direttamente da un quadro op-art. «Sai andarci?», mi chiede. Indica l’altalena. «Certo...» rispondo, con una mano sul collo, «più o meno...». «Non fare il modesto», ghigna, «Devi essere bravo, coi polpacci che ti ritrovi...». Mavis si siede a destra, io a sinistra. L’altalena è di acciaio, rossa, alta tre metri circa. Davanti a noi la linea dell’orizzonte è piattissima, come se fossimo al centro di un’enorme pianura. Non c’è niente a ostacolare lo sguardo, se non ai margini qualche albero, qualche cespuglio. Che Mavis sia pericoloso, si vede subito dai segni che ha in faccia, da come digrigna i denti quando l’altalena dondola indietro. Le scarpe da ginnastica mi assicurano un vantaggio, ma preferisco essere prudente: dopo un paio di giri della morte sia in avanti che indietro - le catene dell’altalena sferragliano ogni volta che passo lo zenit - lo lascio vincere. «Hai visto?» gli chiedo, «non sono un granché». Lui fa un cenno di sufficienza col braccio, scuote la testa, poi si pizzica il lobo dell’orecchio: da dentro un cespuglio sbuca un complice coi vestiti strappati dai rami, i denti sporchi di terra, gli occhi rossi. Mi tiene le braccia mentre Mavis mi colpisce con una barra di ferro arrugginito. Mi chiudono in una cassa, tramortito, mi portano via.

Quella stessa notte incontro la Squadra al porto. Mavis, con la cassa nella quale mi ha rinchiuso, si è rifugiato in un magazzino. Sono qui per salvarmi. Il capo Squadra mi passa un tesserino blu con un codice a barre. «Indossalo bene in vista» mi dice «Così possiamo riconoscerti. Quando ti unirai a noi?» «Mai» gli rispondo, mentre attacco alla felpa il tesserino, «non voglio far parte di M-tv» «Cambierai idea, vedrai». Alzano l’inferriata per lasciarmi entrare. Forse ho fatto un errore a portare con me solo una torcia elettrica. Mentre mi preparo a setacciare l’ambiente (come da prassi), Mavis mi crolla addosso da una pila di scatole. Riesco a svicolare, lo stringo cercando di placcarlo, ma è scivoloso, la sua giacca - quella che credo sia la sua giacca - ha la viscidità della mucillaggine. Attento al complice, mi dico. Illuminato dalla luna che filtra dai finestroni in alto, Mavis mi sembra più grosso, più scuro, con la bocca larga, i denti aguzzi, le braccia corte, una grossa macchia bianca vicino agli occhi, piccoli, neri. Si è trasformato in un’orca assassina: mi si lancia addosso, alza nubi di polvere, rotola sul pavimento cercando di schiacciarmi...

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o
Novembre 1936 – paul éluard (traduzione: Franco Fortini) Guardateli al lavoro i costruttori di macerie sono ricchi pazienti neri ordinati idioti ma fanno quel che possono per esser soli al mondo stanno agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco piegano fino a terra palazzi senza capo. A tutto ci si abitua ma a questi uccelli di piombo no ma non al loro odio per tutto quel che luccica non a lasciarli passare. Parlate del cielo e il cielo si vuota poco ci importa l’autunno i nostri padroni hanno pestato i piedi noi l’abbiamo dimenticato l’autunno dimenticheremo i padroni. Città secca oceano d’una goccia scampata di un unico diamante coltivato alla luce Madrid città fraterna a chi ha patito lo spaventoso bene che nega essere esempio a chi ha patito l’angoscia indispensabile perché splenda quel bene. E alla sua verità salga la bocca raro alito sorriso come rotta catena e l’uomo liberato dal suo passato assurdo levi innanzi ai fratelli un volto eguale