Così ci troviamo fianco a fianco, da soli, io e questo tizio con le scarpe eleganti. Marroni, lucide: sapete il genere. Avrà il cinquantadue, a occhio. Io non ho la cravatta. Fa troppo caldo, anche se il sole è a mezzo cielo e una brezza (la brezza delle prime ore serali) si infila nelle maniche della giacca. Il tizio si chiama Mavis, è un rappresentante farmaceutico, specializzato in Cialis. La sua camicia sembra ritagliata direttamente da un quadro op-art. «Sai andarci?», mi chiede. Indica l’altalena. «Certo...» rispondo, con una mano sul collo, «più o meno...». «Non fare il modesto», ghigna, «Devi essere bravo, coi polpacci che ti ritrovi...». Mavis si siede a destra, io a sinistra. L’altalena è di acciaio, rossa, alta tre metri circa. Davanti a noi la linea dell’orizzonte è piattissima, come se fossimo al centro di un’enorme pianura. Non c’è niente a ostacolare lo sguardo, se non ai margini qualche albero, qualche cespuglio. Che Mavis sia pericoloso, si vede subito dai segni che ha in faccia, da come digrigna i denti quando l’altalena dondola indietro. Le scarpe da ginnastica mi assicurano un vantaggio, ma preferisco essere prudente: dopo un paio di giri della morte sia in avanti che indietro - le catene dell’altalena sferragliano ogni volta che passo lo zenit - lo lascio vincere. «Hai visto?» gli chiedo, «non sono un granché». Lui fa un cenno di sufficienza col braccio, scuote la testa, poi si pizzica il lobo dell’orecchio: da dentro un cespuglio sbuca un complice coi vestiti strappati dai rami, i denti sporchi di terra, gli occhi rossi. Mi tiene le braccia mentre Mavis mi colpisce con una barra di ferro arrugginito. Mi chiudono in una cassa, tramortito, mi portano via.
The science of sleep - 1