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Dormo male, faccio fatica ad addormentarmi. In terrazzo ieri abbiamo trovato un’enorme milza caduta da chissà dove. Volevamo cucinarla con le acciughe e la salvia, ma ha cominciato a pulsare, a contorcesi chiedendo pietà. Abbiamo lasciato perdere, anche perché, a dirla tutta, a me le acciughe non piacciono. Lo so. Lo so. Lo so. Sembro ossessionato. Le zanzare. Dio buono, le zanzare. Giovanna appoggia la testa sul cuscino, batte tre volte i denti e via, addormentata. Io sudo in faccia. Mi sento appiccicaticcio. Appena mi distendo, mi prende tutto uno scaldone che... Non c’è nulla da fare. Mi accendo di rosso. Irradio. Se mi agito troppo alla ricerca di una posizione sveglio Giovanna. Allora mi immobilizzo, faccio pensieri da sasso e sudo in faccia. In quei momenti spero nell’effetto carta moschicida, le zanzare che si appoggiano sulle guance e restano invischiate. Invece ronzano. Zanzareggiano. Superbe. Signorili. Come dei gran gagà. Ampie volute attorno all’orecchio. Lenti ronzii in lontananza, picchi improvvisi. Falò sui soffitti. La mattina ho gli occhi a ping pong. Mentre Giovanna prepara il caffè, io spiattello le zanzare grasse sui muri. Cerco di lasciare delle impronte, per le giovani generazioni che entreranno a sera dalla finestra. Ma hanno memoria breve, le giovani zanzare, il sangue gli dà alla testa...

Dopo che è uscito questo (lasciate perdere il commento! quel mino lì lo conosco bene, è un matto!), mi sono sentito in dovere di farlo leggere in famiglia. Tutto bene, non me l’aspettavo. Anzi, pareri entusiasti. Mio padre ha tentato di aprirsi un blog tutto suo. Mia madre invece mi telefona per darmi suggerimenti editoriali. Tipo perché non lo distribuisco nelle edicole, magari allegato a qualche giornale.

Quando può, lo pubblicizza per il quartiere.
«Anche dal barbiere?» le chiedo a cena, col boccone nella trachea.
«Certo!» mi fa, «Era entusiasta!».
«Mio dio...», dico «Non potrò più farmi vedere in giro...»
«Non ti preoccupare» dice lei, «Guarda che prima li preparo. Gli dico due tre cose in modo che non se la prendano...»
«Cioé?»
«Niente. Li avverto che in quel periodo eri sostanzialmente un po’ depresso e sempre ubriaco».

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o
Novembre 1936 – paul éluard (traduzione: Franco Fortini) Guardateli al lavoro i costruttori di macerie sono ricchi pazienti neri ordinati idioti ma fanno quel che possono per esser soli al mondo stanno agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco piegano fino a terra palazzi senza capo. A tutto ci si abitua ma a questi uccelli di piombo no ma non al loro odio per tutto quel che luccica non a lasciarli passare. Parlate del cielo e il cielo si vuota poco ci importa l’autunno i nostri padroni hanno pestato i piedi noi l’abbiamo dimenticato l’autunno dimenticheremo i padroni. Città secca oceano d’una goccia scampata di un unico diamante coltivato alla luce Madrid città fraterna a chi ha patito lo spaventoso bene che nega essere esempio a chi ha patito l’angoscia indispensabile perché splenda quel bene. E alla sua verità salga la bocca raro alito sorriso come rotta catena e l’uomo liberato dal suo passato assurdo levi innanzi ai fratelli un volto eguale