Il vento ha spezzato i bracci all’ombrellone, i soliti conti da regolare, immagino. Adesso il riverbero del terrazzo è insopportabile, almeno fino alle sei di sera. Non è bastata la colla millechiodi - neppure per la madia in salotto, la cui anta mi è rimasta in mano il mese scorso - se non ad appiccicarmi il gomito sul pavimento. Pezzi di cute sono ancora là, in sacrificio al dio del bricolage perché abbia pietà di me. Io e Giovanna facciamo a gara su chi usa meno carta igienica. Mentre beviamo orzata tagliata vodka, seduti sulle sdraio, le chiedo se non vuole per caso un rotolo di vantaggio. Mi guarda come si guardano gli sbruffoni. Nel frattempo la salvia della vicina è veramente più verde della nostra: di notte, se non dormo per il ronzare degli insetti (e spesso non dormo per il ronzare degli insetti) progetto di lanciare giù il vaso simulandone il suicidio. Ho già in mente la lettera d’addio, conterrebbe le espressioni declorofillizzazione, solitudine alle radici e il congedo Non più burro.
(Ho l’impressione limpidissima di regredire: mi sento meno organizzato, meno competente, più ottuso: il lessico diminuisce, i pensieri si fanno elementari. I miei ragionamenti, oggi, hanno la profondità del mare di Sottomarina...)