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Da quando la tracolla si è strappata, giro con le borse di tela di Giovanna. Quella che preferisco proviene da una libreria di Mestre che non ho mai visto, ma di cui fantastico da tempo, attraverso i racconti di chi c’è stato. È una borsa bianca, con un logo circolare grigio e spiegazzato, sotto cui c’è scritto Sancho Panza, libreria d’essai. Con questa borsa, entro da Gigi e Nanda, qui vicino, a prendere il pane. Se non lo vedessi dietro il banco tutti i giorni - se lo incontrassi cioè per strada e dovessi indovinarne il mestiere per gioco - di Gigi direi che è un barbiere, piuttosto che un fornaio: calvo, baffetti sottili e neri, occhi appuntiti, le mani in tasca. Forbici, vorrei urlargli, non pagnotte. Rasoi, non zoccoletti! Spesso lo vedo attraversare la strada e nascondersi tra i portici per fumare di nascosto. In quei momenti sbircia con nervosismo l’entrata del negozio, sperando che nessuno entri prima di aver superato la metà della sigaretta.
Nanda è bionda, uno sguardo sottile, i gesti un po’ sgraziati, la voce roca: assomiglia a una grossa anatra, a uno di quei personaggi che si incontrano a Paperopoli, gente coi cognomi tipo Anatroni, Quack, Palmati, Starnazza... Ecco, prescindendo dalla valenza fracassona e concentrandosi sulla connotazione di anatrità - un’anatrità anche dolce, volendo - Nanda Starnazza sarebbe il suo nome ideale.
Dal panettiere c’è un altro cliente, oltre a me, un uomo sulla quarantina che indossa un maglione di cotone a righe grigie e arancio. Si fa farcire un panino e intanto chiacchiera coi padroni. Non mi accorgo che è al mio fianco, finché non mi parla:
«Sancho Panza», legge «non ci sono mai stato» .
«È una libreria di Mestre» rispondo mentre scelgo il pane
«Ah sì?» chiede lui «E dove?»
«Non so» rispondo «La borsa è della mia morosa, lei è di Mestre.»
«Ah», fa lui. «Gigi», dice con un gesto sbrigativo «non metterci troppo prosciutto». E poi, rivolto a me, come parlando dello stesso argomento: «Stia attento con le morose, non si sa mai quel che fanno...».
«Eh», sospiro, «ma anche loro non sanno quello che facciamo noi... Mi dà due ciambelle di grano duro?» dico a Nanda.
«Vedo che ci intendiamo!» dice lui «Senta», aggiunge, e si fa vicino vicino, «Parliamo piano, se no si scandalizza la Nanda. Il clitoride... Lei lo sa cos'è il clitoride?»
«Ah be’» rispondo «Proprio un argomento da panificio...»
Guardo verso il banco in cerca d’aiuto, ma Nanda ride alla grande - la bocca aperta, gli occhi che ruotano - mentre infila le ciambelle nel sacchetto.
«Insomma», riprende lui «Il clitoride va dal macellaio...»
«Ma è una barzelletta?»
«La sa già?» Mi guarda preoccupatissimo.
«No, no», rispondo.
«Il clitoride va dal macellaio: che cosa ordina?»
«... lingua?»
«Bravo!» dice lui. Gli brillano gli occhi, mi stringe la mano: «Lei è tra l’1% della popolazione che risponde esattamente alla domanda! Ma la sapeva già?»
«No» dico.
«Un euro» mi dice intanto Nanda, porgendomi il sacchetto.
«Guardi: o la sapeva già o ci ha pensato intensamente...»
«Ci ho pensato intensamente. Ecco a lei l’euro»
Prendo lo scontrino, mi avvio verso l’uscita, ma prima mi giro per salutare. Sul pavimento c'è una pompa da biciclette che non avevo visto.
«È mia» dice il tipo, «Per non rimanere a piedi». Mima il gesto di pompare.
«Sospettavo», dico.
«Lo sapevo che lei è un uomo di mondo!», poi, come pensieroso aggiunge: «Ma ha detto che sospettava o che immaginava? Perché è differente, sa.».
«Ho detto sospettavo», rispondo, proprio sulla porta.
«No, non sospetti», mi urla dal fondo del negozio, «non deve sospettare! Immagini

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o
Novembre 1936 – paul éluard (traduzione: Franco Fortini) Guardateli al lavoro i costruttori di macerie sono ricchi pazienti neri ordinati idioti ma fanno quel che possono per esser soli al mondo stanno agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco piegano fino a terra palazzi senza capo. A tutto ci si abitua ma a questi uccelli di piombo no ma non al loro odio per tutto quel che luccica non a lasciarli passare. Parlate del cielo e il cielo si vuota poco ci importa l’autunno i nostri padroni hanno pestato i piedi noi l’abbiamo dimenticato l’autunno dimenticheremo i padroni. Città secca oceano d’una goccia scampata di un unico diamante coltivato alla luce Madrid città fraterna a chi ha patito lo spaventoso bene che nega essere esempio a chi ha patito l’angoscia indispensabile perché splenda quel bene. E alla sua verità salga la bocca raro alito sorriso come rotta catena e l’uomo liberato dal suo passato assurdo levi innanzi ai fratelli un volto eguale