Il naso arriva nella stanza dieci secondi prima di me. Sgocciola. Di profilo, è l’unica parte che sbuca, adunca, dalla mantella blu. I pantaloni pesanti d’acqua, l’unico guanto gonfio di pioggia, una palude dentro le scarpe. – Dovevi metterti i guanti da cucina, per uscire – dice T., asciutto – E gli stivali di gomma – dice P. Loro sono arrivati in macchina. Mi tolgo il cappuccio e l’acqua gelida mi cola nel collo. Ho gli occhiali ricoperti di gocce per fuori, appannati per dentro, come se, pedalando, del vapore avesse continuato a uscire dagli occhi: l’effetto visivo è una continua rifrazione di luci da tutti i lati in una nebbia personale – Sembri un fantasma – dice T. – No, sembri Igor (Aigor), quello di Frankenstain Jr. – dice P.
Ridono.
Io, invece, sgocciolo.
-Cos’hai, Ale? – chiede mio padre a cena
Nell’altra stanza, in salotto, sentiamo mia madre camminare con Emiliano in braccio. Canta, gli parla, lo dondola.
- Tua madre è andata via di testa – dice mio padre a mia sor