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Mentre sono incarognito e ingrigito, curvo sul computer - così curvo che quasi batto sui tasti con le spalle e col mento - e digrigno i denti e maledico me stesso, la mia tesi, montale, quasimodo, la poesia italiana del novecento - ma anche quella dell’ottocento e degli anni a venire – e l’intertestualità e la tecnologia e word e la bibliografia e le conclusioni, e i miei nonni, i miei bisnonni, i miei avi fino all'ottava generazione, i miei parenti australiani, i cugini di quarto grado, tutti i miei sei gradi di separazione; mentre complotto disastri navali, incidenti diplomatici, meschinità parlamentari, esplosioni di pus, crateri nei centri cittadini, gas velenosi negli open-space della microsoft, occhiali rotti a Bill Gates, profanazioni di tombe di alcuni poeti italiani, alieni nei fast food, formiche giganti, camion dell’immondizia assassini, pupazzi vendicativi armati di tomi del GDLI (Grande Dizionario della Lingua Italiana); mentre progetto lo sterminio del mondo accademico, NM, al tavolo accanto, indica la finestra e dice: “Guarda!”

“Cosa?”, dico, anche se istintivamente mi verrebbe da morsicargli un braccio e urlare: “Che cazzo vuoi! Che cazzo vuoi, eh?! Ti ho parlato?! Che cazzo vuoi! Cazzo! Cazzo! Cazzzzzo cazzutissimo cazzo!”
“Un coniglio! Sul tetto di fronte!”
Guardo NM. Mi alzo. Guardo il coniglio. Guardo lui.
Poi ancora fuori dalla finestra.
Poi lui.
Poi la finestra.
Poi lui.
Poi il piccione, di nuovo.
“Un coniglio…”, dico. Mi risiedo
“Hai visto?” dice, sorridendo, “E’ enorme! Tu l’hai mai visto un coniglio così grande in una grondaia?”
“No”, dico. Nel frattempo torno a immedesimarmi in Conan il barbaro.
“Pazzzesco!”, dice, “Chissà come c’è finito là. Guarda!” dice.
Non guardo.
Lui si agita. Si toglie gli occhiali. Se li rimette. Si protende verso la finestra. Poi appoggia la schiena alla sedia. Si tocca i capelli. Si gira verso di me. Si gira verso la finestra. Si mette una mano davanti alla bocca.
Mi guarda.
“E’ volato via”, dice.
“Sul serio?”, dico.
“Sì” dice.
Fissa la finestra per qualche istante.

“Certo che questi organismi geneticamente modificati fanno paura”, dice. “Conigli con le ali” aggiunge “Chissà dove andremo a finire.”
“Già” dico, annuendo.


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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o
Novembre 1936 – paul éluard (traduzione: Franco Fortini) Guardateli al lavoro i costruttori di macerie sono ricchi pazienti neri ordinati idioti ma fanno quel che possono per esser soli al mondo stanno agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco piegano fino a terra palazzi senza capo. A tutto ci si abitua ma a questi uccelli di piombo no ma non al loro odio per tutto quel che luccica non a lasciarli passare. Parlate del cielo e il cielo si vuota poco ci importa l’autunno i nostri padroni hanno pestato i piedi noi l’abbiamo dimenticato l’autunno dimenticheremo i padroni. Città secca oceano d’una goccia scampata di un unico diamante coltivato alla luce Madrid città fraterna a chi ha patito lo spaventoso bene che nega essere esempio a chi ha patito l’angoscia indispensabile perché splenda quel bene. E alla sua verità salga la bocca raro alito sorriso come rotta catena e l’uomo liberato dal suo passato assurdo levi innanzi ai fratelli un volto eguale