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Il naso arriva nella stanza dieci secondi prima di me. Sgocciola. Di profilo, è l’unica parte che sbuca, adunca, dalla mantella blu. I pantaloni pesanti d’acqua, l’unico guanto gonfio di pioggia, una palude dentro le scarpe. – Dovevi metterti i guanti da cucina, per uscire – dice T., asciutto – E gli stivali di gomma – dice P. Loro sono arrivati in macchina. Mi tolgo il cappuccio e l’acqua gelida mi cola nel collo. Ho gli occhiali ricoperti di gocce per fuori, appannati per dentro, come se, pedalando, del vapore avesse continuato a uscire dagli occhi: l’effetto visivo è una continua rifrazione di luci da tutti i lati in una nebbia personale – Sembri un fantasma – dice T. – No, sembri Igor (Aigor), quello di Frankenstain Jr. – dice P.
Ridono.
Io, invece, sgocciolo.

-Cos’hai, Ale? – chiede mio padre a cena
Nell’altra stanza, in salotto, sentiamo mia madre camminare con Emiliano in braccio. Canta, gli parla, lo dondola.
- Tua madre è andata via di testa – dice mio padre a mia sorella
- Sì, ma che ci devo fare? – dice lei
Passo il pane sul pomodoro, svogliatamente.
- Sono stanco - dico
- Ma se non hai niente da fare? –
- Sì, infatti, ma sono stanco lo stesso – dico – sono sempre stanco. Dormirei sempre –
- Da quando? – chiede, psichiatricamente, mia sorella
- Da un po’ – le dico.
Mio padre taglia una fetta di formaggio.
Sentiamo in salotto mia madre che dice: - Oooh, ma quanto sonno che abbiamo! – o anche – Facciamo la cacca eh? Facciamo la cacca? – Il nano, che oggi è vestito di verde pistacchio, si lascia dondolare, a volte risponde così: - Aaaag – o anche – Uuup – oppure, ultima scoperta dei suoi vocalizzi: – Prrr –
- Secondo me sei un po’ depresso – dice mia sorella
- Boh. – dico – Può darsi. –

Torno a casa da Chiesanuova, come ogni lunedì. Continua a piovere, sempre più forte. Sento il freddo dei pantaloni sulle cosce. Il naso, esposto, si sta gelando. Alla radio trasmettono solo Elisa, per quanto cambi canale non riesco a trovare niente di decente da ascoltare. Il vento mi arriva diretto in faccia. Piego la schiena per fare meno attrito, pedalo con più forza, mi appoggio al manubrio. Ripenso al film delirante che abbiamo visto stasera: a un certo punto, nel film, un cadavere esplode, dalla pancia gli escono gli intestini che si arrotolano su uno dei protagonisti nel tentativo di soffocarlo. Ho sonno. Pedalo, ma non procedo. Non di un centimetro. Mi sembra di essere su una cyclette.

Allora smetto di pedalare e il vento mi riporta indietro, indietro, indietro, indietro, indietro, indietro, indietro, per chilometri e chilomentri e chilometri, sempre più veloce, per chilometri indietro, sempre più indietro, finchè non perdo l’equilibrio.

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o
Novembre 1936 – paul éluard (traduzione: Franco Fortini) Guardateli al lavoro i costruttori di macerie sono ricchi pazienti neri ordinati idioti ma fanno quel che possono per esser soli al mondo stanno agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco piegano fino a terra palazzi senza capo. A tutto ci si abitua ma a questi uccelli di piombo no ma non al loro odio per tutto quel che luccica non a lasciarli passare. Parlate del cielo e il cielo si vuota poco ci importa l’autunno i nostri padroni hanno pestato i piedi noi l’abbiamo dimenticato l’autunno dimenticheremo i padroni. Città secca oceano d’una goccia scampata di un unico diamante coltivato alla luce Madrid città fraterna a chi ha patito lo spaventoso bene che nega essere esempio a chi ha patito l’angoscia indispensabile perché splenda quel bene. E alla sua verità salga la bocca raro alito sorriso come rotta catena e l’uomo liberato dal suo passato assurdo levi innanzi ai fratelli un volto eguale