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1.
Leggevo questo, più o meno, quando il treno si è fermato in mezzo al nulla, tra padova e venezia: Se questo in particolare è vero, il piacere procurato dalla letteratura ha una utilità ben più durevole per gli uomini che non le scappatoie infide dei lapsus, le difese penose del sintomo e gli appagamenti allucinatori del sogno...;

seduto su un sedile azzurro - o forse verde - cercavo di decifrare il senso delle lettere che fluttuavano senza connettersi, stanco ma stanchissimo. Qual era il nucleo? Il centro molle del discorso? Perchè all'improvviso questo terrore degli aerei? o il rifiuto della concentrazione? Mi sfuggiva l'orizzonte, il margine, il punto di fuga di una prospettiva sballata, quasi da racconto di Lovecraft. Mi aspettavo che uomini dalla testa di pesce arrivassero nei corridoi del regionale, coi loro riti malsani, nel tentativo di evocare un dio conchiglia pieno di tentacoli: un dio ustionatore, acido, incorporeo, che lasciasse cicatrici sugli organi interni: sui reni, sulle arterie o anche sui muscoli delle gambe. Sarà, pensavo, Sarà l'ipotesi del viaggio, pensavo ieri. Il mio, il tuo. E tutto questo per dire cosa? Per andare dove? Per accusare una mancanza che in quanto mancanza non c'è?

2.
Il ragazzo con l'accento mestrino fu il primo ad affacciarsi e a capire cosa stava succedendo. Il mio vicino, a sinistra, leggeva una rivista di fumetti porno. La signora di duecento chili con la maglia leopardata non riusciva a capacitarsi che il treno si fosse fermato così, all'improvviso, senza ragione. Mi affacciai anch'io, ma nel buio non si vedeva nulla e non capivo come il ragazzo mestrino col viso da cavallo potesse aver scoperto che qualcuno si era aggrappato al treno. Aveva ricostruito tutta la storia, aveva la spiegazione di tutto e non si capiva da dove l'avesse tirata fuori. Un uomo di colore, senza biglietto, era stato fatto scendere a Mira, ma una volta partito il treno non si era rassegnato e si era attaccato all'esterno dell'ultima carrozza, aggrappato a una porta o a un finestrino aperto. La signora leopardata sbuffava alzandosi, sendendosi. Il mio vicino del fumetto porno si sporse per un secondo, poi si tolse i sandali e tornò a leggere. Guardai lungo il corridoio, c'erano solo alcune teste che crescevano ai bordi dei sedili e si guardavano, cercando di capire, nel riflesso degli occhi degli altri - di riflesso in riflesso - che cosa succedesse in fondo al treno. Ci fu un correre di controllori, qualche bisbiglio, un brusio diffuso. Il mestrino ridacchiava, la leopardata camminava su e giù da un finestrino all'altro, guardava l'orologio. Io pensavo: sarei in grado di aggrapparmi al treno per non perderlo? Lo farei? Lo potrei mai fare?

3.
Da un po' continuo a svegliarmi sempre più tardi, ma le occhiaie non spariscono; e ancora non del tutto tranquillizzato cerco di convincermi di un destino che mi mantenga in vita. E' una cosa stupida pensare che non si può morire perchè tra un anno, tra due, tra dieci si ha un appuntamento con qualcosa o qualcuno? Stupido quasi come pensare che il proprio treno deragli, o che arrivi un terremoto proprio nel momento in cui si è a venti metri dal suolo, in cima a un acquedotto che non ha mai dato segni di crollo?

Ma valà, pensavo oggi pomeriggio, prima, adesso, mentre scrivo. Ma valà: il cielo brontola, forse pioverà, un giorno la teoria delle stringhe risolverà i problemi della fisica moderna. E io, in quel treno che si era fermanto tra padova e venezia, pensavo che quando parlo degli aerei non parlo mica solo degli aerei e forse dovrei spiegarmi meglio.

Potrei spiegarmi meglio, mi spiegherei così:

... sai: questa cosa che è cosata all'improvviso, non so se è una cosa che coserà, ma coso di sì, anche se, cosando le solite cose, coso a cosare che le cose si cosino cosabilmente e che le cose non cosino per sempre, che siano cosabili, cosibili, soprattutto cosubili. Queste cose si stracosano all'inizio, poi si cosano, si discosano, si supercosano, fino a cosarsi di nuovo, e noi, in tutto questo, non ci possiamo cosare nessuna cosa, anche se adesso io ti coso cose e tu mi cosi cose, e tutti cosiamo le cose che ci cosiamo fino a scosarci e ricosarci all'infinito...

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o
Novembre 1936 – paul éluard (traduzione: Franco Fortini) Guardateli al lavoro i costruttori di macerie sono ricchi pazienti neri ordinati idioti ma fanno quel che possono per esser soli al mondo stanno agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco piegano fino a terra palazzi senza capo. A tutto ci si abitua ma a questi uccelli di piombo no ma non al loro odio per tutto quel che luccica non a lasciarli passare. Parlate del cielo e il cielo si vuota poco ci importa l’autunno i nostri padroni hanno pestato i piedi noi l’abbiamo dimenticato l’autunno dimenticheremo i padroni. Città secca oceano d’una goccia scampata di un unico diamante coltivato alla luce Madrid città fraterna a chi ha patito lo spaventoso bene che nega essere esempio a chi ha patito l’angoscia indispensabile perché splenda quel bene. E alla sua verità salga la bocca raro alito sorriso come rotta catena e l’uomo liberato dal suo passato assurdo levi innanzi ai fratelli un volto eguale