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Tre

Piove una pioggia fitta, iniziata da un minuto all’altro, che non ti aspettavi; sei lontano e senza ombrello e in bicicletta; quando dico lontano vuol dire lontano: lontano diciamo una decina di chilometri; e sei in bicicletta e senza ombrello e piove una pioggia fitta; che vuoi fare: non accenna a smettere: indossi il cappuccio, inforchi la bici (inforchi? ma come parli?) e vai per la pista ciclabile tra gli scrosci e le ondate d’acqua alzate dalle macchine che corrono lì accanto.

Il tipo ha barba e baffi incolti e capelli lunghi, raccolti in un bozzo a metà nuca. Alto, è alto. Viscido, è decisamente viscido. Dice cose come: – Ho scoperto il sesso tardi, ma una volta scoperto… dove passo io non cresce più erba e agli altri non rimangono che pippe.
O anche: - Ehi, vuoi vedere il mio pocket coffee?


Sul solito cavalcavia cerchi di accelerare, ma ti si spezza il fiato in un secondo. Al buio, incroci una mountainbike senzafanale per poco vi schiantate (le gocce che scendono dall’orlo del cappuccio ti bloccano la vista). La mountainbike è seguita da un cane nero grosso che corre bagnato.

Ti senti seguito. Non è la solita paranoia. Senti i passi, i passi dietro di te. Ti giri: il cane è lì, ti osserva con la testa un poco piegata.
– No, dici, va via.
Ma il cane niente.
Avanzi. Ti segue.
Ti fermi. Ti segue.
Dici: - Via! Non sono il tuo padrone – E lui ti guarda.

Giri la bici.

Sei a bere una birra con T. State parlando di fumetti e di politica. Poi lui fa:
- E che mi dici dell’impennata di morti per tonsillectomia?


Scendi il cavalcavia e piove. Non incontri nessuno. Comunque piove. Il cane ti segue. Piove. Acceleri per cercare il padrone. Ma per strada non ci stanno più neppure le macchine. Arrivi a un ristorante cinese. C’è una tettoia. Sotto la tettoia, una bici. Vicino alla bici, due uomini. Uno alto. Uno più alto ancora. La bici è una mountainbike. E’ fatta, pensi. Ti avvicini. Il cane ti segue. Poi si allontana verso i due uomini. (Piove)
- E’ vostro il cane?
- Sì - dice uno
- No - dice l’altro, quello più alto. Fa un passo verso di te. – Qualcosa non va?
- No – dici. – Mi stava seguendo
- E allora? – dice
- Lascia stare – dice il primo
- E’ che pensavo si fosse perso.
- E allora? – dice l’alto
- Sì, è nostro – dice il compagno, e lo guarda. Ma quello alto guarda me negli occhi e dice:
- No che non è nostro. Vattene.
- E’ vostro o no?
- Che te ne frega? Eh? che vuoi? Lascialo stare.
- Non ho capito: è vostro?
- Sì grazie è nostro.
- Non è nostro. Ma a te che te ne frega?
- No, è che ero preoccupato. Per il cane, dico.
Dici. Il più alto avanza ancora. Il primo gli mette una mano sul petto per bloccarlo. Tu saluti, te ne vai nella direzione opposta a casa tua, come se ancora cercassi il padrone del cane. Per un po’ il cane ti segue. Poi ti fermi, guardi indietro e non c’è più. Aspetti e non c’è più. Aspetti e non ricompare. Aspetti e piove.
Piove.

Tonsillectomia?!

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o
Novembre 1936 – paul éluard (traduzione: Franco Fortini) Guardateli al lavoro i costruttori di macerie sono ricchi pazienti neri ordinati idioti ma fanno quel che possono per esser soli al mondo stanno agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco piegano fino a terra palazzi senza capo. A tutto ci si abitua ma a questi uccelli di piombo no ma non al loro odio per tutto quel che luccica non a lasciarli passare. Parlate del cielo e il cielo si vuota poco ci importa l’autunno i nostri padroni hanno pestato i piedi noi l’abbiamo dimenticato l’autunno dimenticheremo i padroni. Città secca oceano d’una goccia scampata di un unico diamante coltivato alla luce Madrid città fraterna a chi ha patito lo spaventoso bene che nega essere esempio a chi ha patito l’angoscia indispensabile perché splenda quel bene. E alla sua verità salga la bocca raro alito sorriso come rotta catena e l’uomo liberato dal suo passato assurdo levi innanzi ai fratelli un volto eguale