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Paragrafi in ordine casuale #2

Ma zio maiale, porca schifa, morte, putrefazione, minchia merda orrenda - questo è più o meno il mio pensiero nel momento in cui, osservando la colonna alla quale avevo l'avevo appoggiata, mi rendo conto che veramente la mia bicicletta non è diventata invisibile come l'aereo invisibile di Wonder Woman, ma è stata proprio rubata, sottratta, saccheggiata, carpita, rapita, accaparrata; insomma inculata, scomparsa, sparita, fottuta, inchiappettata, tarmata, ciavata, eccetera.
Papino, che è lì con me - sono circa le due di notte, forse le tre, non so, ho bevuto troppa birra, il mio sguardo è offuscato al centro, vedo bene solo ai margini - Papino mi guarda, imperturbabile come solo lui sa essere, mi dice: Scusa, ma mi viene da ridere.

- Mi hanno rubato la bici - dico al telefono.
- Oooooooooooooo noooooooooooooooo - risponde il telefono - Noooooooo. Ma dove? -
- In via san Francesco - dico - Ieri notte. -
- Mi dispiaaaace - risponde il telefono - Mi dispiaaace, ma... aspetta... dov'eri tu?
- Ero lì da quelle parti... -
- Sì, ma non è che magari... -
- Tu come stai? Stai bene?
- Non è che eri all'Alexander?
- Hai sentito che caldo? Oggi per esem...
- Cazzo, eri all'Alexander! Te lo meriti che ti abbiano inculato la bici! Se vai in quel posto di merda te lo meriti cazzo; puzzerai di fritto per altre due settimane, che schifo! Te lo meriti! Te lo meriti!
Click.

Non so. Forse nella vita precedente ero un unno. Uno che si vestiva di pellicce di lupo e mangiava solo carne cruda, sbranava marmocchi, squartava gatti, bruciava i capelli alle donne e adorava dèi sanguinari e idioti.

- La psicòloga dice che sono manipolatoria - fa mia madre sulla porta, fingendo sprezzatura.
- Manipolatrice - la correggo, mentre fisso il monitor.
- E' lo stesso. Non è una bella cosa. -
- Comunque ha ragione - dico
- Sarà, ma non mi piace. E poi: chi non lo è? -
- Già. Chi più, chi meno... -
- Sai cosa faccio? Decido che non sono manipolatoria. E se decido di non esserlo non lo sono. -
Si allontana soddisfatta.

Due settimane prima, forse tre: mi resta in mano il manubrio. Non tutto. Solo la parte orizzontale. Quella con le manopole e i freni. Porto la bici ad aggiustare. L'aggiusta-bici - un uomo corpulento di nome Gigio, che indossa sempre la stessa salopette e una fascia bianca di cotone sulla fronte - me lo sostituisce con uno usato, arrugginito, con le manopole bianche e i bulloni dei freni che si svitano da soli. Oggi, invece, torno per chiedergli se ha delle bici da vendere. No, solo bici nuove, dice. E non ne posso più di voi che vi fate rubare le bici, poi venite qui - non parlo mica di te, eh? - e vi lamentate che le bici che vendo costano troppo, e i lucchetti sono troppo cari; e poi magari di notte non le mettete in garage, non le lucchettate a qualcosa, usate lucchetti di gomma. Non è mica colpa mia se siete degli idioti - esclusi i presenti, ovvio.

- Ale! - urla mia madre - Vieni in cucina
Vado in cucina.
- La radio! - mi indica la radio vicino ai fornelli.
- Che ha? -
- Si è accesa da sola. -
- Non è vero. -
- Sì che è vero. -
- Ma valà. - dico. Prendo in mano la radio. Cerco di spegnerla, ma l'interruttore è già sull'Off. Allora la accendo e la spengo di nuovo. La appoggio. Aspettiamo. Mia madre ridacchia.
- Magari è come quel paesino in Sicilia, dove le cose prendevano fuoco da sole - dice
Poi la radio parte.
krr krr krr.

Mio padre a Londra.
Un uomo basso gli si avvicina. Gli dice, in inglese:
- Io so chi è lei. L'ho vista in televisione.
- I beg your pardon? - chiede mio padre
- Lei è uno storico inglese - dice l'uomo, puntandogli addosso un indice.
- I don't think so - dice mio padre.
- No no, sono sicuro - dice l'uomo
- I'm italian - dice mio padre
- Ah - fa l'uomo - capisco. Però a mia moglie dirò lo stesso che l'ho incontrata, che tanto ci crede. Arrivederci.

A questo punto, visto che ormai sono appiedato, tanto vale allenarsi di più. Mi preparo; esco in pantaloncini e maglietta, porto solo il minimo indispensabile: walkman, chiavi, acqua (un litro e mezzo), un libro - anzi due, che non si sa mai - maglietta di ricambio, telefono, una lattina di birra, cronometro, qualche cd, salsicce al sonnifero (nel caso qualche cane mi inseguisse), cappello, eccetera. Al sesto minuto, senza fiato, mi accorgo di essermi dimenticato i fazzoletti di carta. Tiro su col naso come se avessi appena mangiato dei fagioli piccantissimi. Potrei chiudermi a turno una narice e soffiare, come fanno i ciclisti, ma immagino già il disastro sui pantaloni. Allora, visto che non c'è nessuno, prendo la decisione di scaccolarmi. Il mio errore è farlo in curva. Proprio mentre ho tutto il braccio infilato nel naso - praticamente sto rianimando i polmoni a mano - incrocio l'unica ragazza dell'argine. E' bellissima. E mi guarda con disgusto.

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o
Novembre 1936 – paul éluard (traduzione: Franco Fortini) Guardateli al lavoro i costruttori di macerie sono ricchi pazienti neri ordinati idioti ma fanno quel che possono per esser soli al mondo stanno agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco piegano fino a terra palazzi senza capo. A tutto ci si abitua ma a questi uccelli di piombo no ma non al loro odio per tutto quel che luccica non a lasciarli passare. Parlate del cielo e il cielo si vuota poco ci importa l’autunno i nostri padroni hanno pestato i piedi noi l’abbiamo dimenticato l’autunno dimenticheremo i padroni. Città secca oceano d’una goccia scampata di un unico diamante coltivato alla luce Madrid città fraterna a chi ha patito lo spaventoso bene che nega essere esempio a chi ha patito l’angoscia indispensabile perché splenda quel bene. E alla sua verità salga la bocca raro alito sorriso come rotta catena e l’uomo liberato dal suo passato assurdo levi innanzi ai fratelli un volto eguale