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Mio padre con un bastone verde in mano, il manico di una scopa senza spazzola. La luce dietro di noi, a destra, non illumina il balcone a sufficienza: vado a prendere una torcia elettrica. Anche la torcia è verde. L'acero è alto circa un metro, a partire dal vaso. Ha un tronco sottile, tre centimentri di diametro. "Era qua, lo giuro", dico indicando con la torcia un ramo davanti a me, "una cavalletta enorme. Quindici centimetri, saranno stati. Quindici centimetri di cavalletta." Allargo l'indice e il pollice. Mio padre si muove attorno al tronco, a passi laterali, incrociando le caviglie. Muove i rami con la punta del bastone, mentre io illumino l'altra parte dell'albero. "Eccone una", dice. Con un colpo secco la fa cadere su una foglia della pianta sottostante. Una foglia larga. Si china. Appoggia la mano libera sotto la foglia, all'altezza della cavalletta. Prende la mira col bastone. "Cosa fai? La uccidi?" Mi guarda, come realizzando qualcosa. Poi sventola il manico verso il giardino del condominio accanto. La cavalletta descrive una parabola discendente. Diciamo: y=-3x²+4, con x positivo. "Forse dovremmo aspettare che torni la mamma", dico. "Qui ci vuole dell'insetticida." dice lui. "Lei saprebbe cosa fare." dico. "Del diserbante, ci vorrebbe. E' ancora in commercio il DDT?" A me il DDT fa venire in mente il Vietnam. "Comunque la mamma le prenderebbe in mano. Le prenderebbe in mano e le lancerebbe via", dico. Il condominio di fronte ha tutte le tapparelle tirate. Forse sono tutti a dormire oppure devono ancora rientrare dalle vacanze. Mio padre beve un sorso di porto. Rappoggia il bicchiere sul davanzale, vicino alla fila di cactus. "Vabe'" dico, continuando a illuminare l'acero con la torcia "Aspettiamo che torni la mamma?". "Eccone un'altra" dice lui. Con una mossa a sorpresa afferra la cavalletta per la coda e la lancia nel giardino. "Ah" dico. La cavalletta si perde nel buio, questa volta non riesco a seguirne la traiettoia. "Be' adesso possiamo entrare", dico. "Guarda qua". Non so come ne ha in mano un'altra. La tiene per la coda. Me la mostra. La illumino. E' verde. Ha gli occhi arancioni, brillanti. Alla giuntura delle gambe vedo delle gocce marroni, un liquido non ben definito, denso. "E' orrenda", dico, senza riuscira a distogliere lo sguardo. E' viva? E' morta? Dorme? Non si muove, non muove niente. Non fa un verso. (Fanno un verso, le cavallette?) Penso alla vivisezione, alle operazioni chirurgiche, alla catalogazione tassonomica degli insetti. Alle vendette notturne delle cavallette. (Stanotte chiuderò tutte le finestre) Mio padre la lancia nel giardino. Appoggia il bastone. Finisce il porto. "Basta così", dice.

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o
Novembre 1936 – paul éluard (traduzione: Franco Fortini) Guardateli al lavoro i costruttori di macerie sono ricchi pazienti neri ordinati idioti ma fanno quel che possono per esser soli al mondo stanno agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco piegano fino a terra palazzi senza capo. A tutto ci si abitua ma a questi uccelli di piombo no ma non al loro odio per tutto quel che luccica non a lasciarli passare. Parlate del cielo e il cielo si vuota poco ci importa l’autunno i nostri padroni hanno pestato i piedi noi l’abbiamo dimenticato l’autunno dimenticheremo i padroni. Città secca oceano d’una goccia scampata di un unico diamante coltivato alla luce Madrid città fraterna a chi ha patito lo spaventoso bene che nega essere esempio a chi ha patito l’angoscia indispensabile perché splenda quel bene. E alla sua verità salga la bocca raro alito sorriso come rotta catena e l’uomo liberato dal suo passato assurdo levi innanzi ai fratelli un volto eguale