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Vivo in un mondo popolato da zanzare invadenti, venditori idioti e amici con problemi al culo. Non lo faccio apposta. Calamito invasioni della sfera intima o anche solo personale. Mi orbitano attorno satelliti di sgradevolezza, asteroidi emorroidali che la mia atmosfera non riesce a disgregare prima che mi craterizzino. Q, rappresentante di una nota ditta di telefonia il cui nome camufferò infallibilmente per evitare ripercussioni, telefona alle otto di mattina per accertarsi che ci sia qualcuno in casa. Sbando, mezzo assonnato, verso il telefono, in mutande, tastando il corridoio. Mia madre mi passa il ricevitore con il microfono rivolto verso l'alto, in modo da farsi sentire bene, dice: «E' per te: quickweb, anzi, no, meglio: è earlyweb». «Mi scusi se ho svegliato sua madre.», dice Q. «No», rispondo, «mia madre è sveglia dalle sei, lei ha svegliato me». Evito, per pura sonnolenza, di concludere con un eccheccazzo... Q si prensenta infallibilie alle nove: giacca e pantaloni blu (ma di una tonalità leggermente diversa), camica bianca, cravatta a pallini, scarpe marroni. Si toglie la giacca, prende possesso di una sedia e quasi mi aspetto che si arrotoli le maniche. «Sei giovane» mi dice «Ti dò del tu» «No. Mi dia del lei.» «Ma cosa hai fatto alle dita?» «Non si preoccupi e mi spieghi tutto. E mi dia del lei.» «Comunque mi spiace di aver svegliato tua madre» Valuto quale oggetto possa essere abbastanza pensante da scavargli il cranio. Alle sei e mezza di mattina una zanzara particolarmente affettuosa decide di pungermi in punta le dita delle mani, una per una. Poi ronza decisa nell'orecchio per svegliarmi e farmi vedere la sua opera d'arte: in opposizione alle unghie, tutte le mie dita hanno un piccolo bubbone collinoso perfettamente piazzato nel mezzo al polpastrello. L'unico modo per grattarmi è passare le dita su una superficie ruvida. La grattuggia è pefetta. Forse dovrei scusarmi per il cambio drastico di discorso. Ma invece parlerò della mattinata in biblioteca passata a sentire le storie del culo di N - nel senso che il culo è l'argomento della storia, non colui che le racconta, essendo il narratore N e non il culo, il suo culo, che invece è il soggetto di innumerevoli storie, mai raccontate in prima persona. ("Ah, se i culi parlassero, chissà quante ne avrebbero da raccontare", recita un vecchio adagio, se non ricordo male.) Vi risparmio tutto, tranne le conclusioni: «Adesso appena mi siedo il mio culo sprizza sangue, ho un grumo enorme che spunta, un grumo così grande che mi sembra di avere una terza chiappa». Qui c'era la conclusione dell'incontro con Q. L'ho cancellata perchè faceva schifo. Le parole chiave erano: sudore, firma, avidità, risparmio, stupidità, promozioni mancate, azienda, ritorno del rimosso. Finite voi, io adesso vado al cinema.

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o
Novembre 1936 – paul éluard (traduzione: Franco Fortini) Guardateli al lavoro i costruttori di macerie sono ricchi pazienti neri ordinati idioti ma fanno quel che possono per esser soli al mondo stanno agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco piegano fino a terra palazzi senza capo. A tutto ci si abitua ma a questi uccelli di piombo no ma non al loro odio per tutto quel che luccica non a lasciarli passare. Parlate del cielo e il cielo si vuota poco ci importa l’autunno i nostri padroni hanno pestato i piedi noi l’abbiamo dimenticato l’autunno dimenticheremo i padroni. Città secca oceano d’una goccia scampata di un unico diamante coltivato alla luce Madrid città fraterna a chi ha patito lo spaventoso bene che nega essere esempio a chi ha patito l’angoscia indispensabile perché splenda quel bene. E alla sua verità salga la bocca raro alito sorriso come rotta catena e l’uomo liberato dal suo passato assurdo levi innanzi ai fratelli un volto eguale