AM ha un soprannome e il suo soprannome è: Porco D.o.c. (pòrcodoc)
Circa dieci anni fa certe cabine telefoniche impazzivano e lasciavano telefonare ovunque, per tutto il tempo, con solo duecento lire. Una cabina di questo tipo l’avevamo trovata dietro la Stanga. Ogni sera, lungo i marciapiede che portavano a questa cabina, c’erano file di immigrati che chiamavano a casa.
E c’eravamo noi, che in gruppo telefonavamo agli 144.
Il pòrcodoc era un mio ex-compagno di classe, bocciato un paio di volte. Non lo chiamavamo ancora pòrcodoc. Abbiamo cominciato a chiamarlo così quando lo abbiamo sorpreso alla cabina, da solo, col walkman in mano, intento a registrarsi le conversazioni con la telefonista pornografica.
Diceva che lo faceva per un suo amico.
Già. Certo.
L’ho incontrato ieri, dopo anni che non ci vedevamo.
- Ciao!
- Ciao.
- Da quanto tempo!
- Eh, sì.
- Come va? Cosa stai facendo?
- Studio.
Mi guarda, gli occhi spalancati. Si mette a posto gli occhiali. Tossicchia.
- Quanti anni è che hai?, mi fa.
- Ventotto.
- Ah.
Lo vedo soddisfatto. Si accende una sigaretta. Si appoggia al muro.
- Saranno contenti i tuoi genitori – dice – quando torni a casa e dici che ti hanno bocciato a un esame! – ride. Poi si ferma. Poi ride di più. Così, da solo.
- Gli esami li ho finiti. Sto per laurearmi.
- Be’ dai. Con calma, eh?
Lo vedo toccarsi la barba. Gli sono caduti tutti i capelli, ha in testa qualche ricciolo di peli isolati. In questa fase da aranciameccanica in cui mi ritrovo, ho una pazienza limitiatissima.
- Cos’è che fai?
- Lettere.
- Ah. – dice – quindi dopo… futuro assicurato, eh!? C’hai lavoro sicuro!
Ride di nuovo. Rido anche io per distrarlo e trovare l’angolazione giusta da cui tirargli una testata. Intanto mi avvicino. Cerco di non essere minaccioso. Ha ha ha. Che bella battuta!
Mi trattengo.
- E tu? Che stai facendo? – gli chiedo
- Sono disoccupato.
Circa dieci anni fa certe cabine telefoniche impazzivano e lasciavano telefonare ovunque, per tutto il tempo, con solo duecento lire. Una cabina di questo tipo l’avevamo trovata dietro la Stanga. Ogni sera, lungo i marciapiede che portavano a questa cabina, c’erano file di immigrati che chiamavano a casa.
E c’eravamo noi, che in gruppo telefonavamo agli 144.
Il pòrcodoc era un mio ex-compagno di classe, bocciato un paio di volte. Non lo chiamavamo ancora pòrcodoc. Abbiamo cominciato a chiamarlo così quando lo abbiamo sorpreso alla cabina, da solo, col walkman in mano, intento a registrarsi le conversazioni con la telefonista pornografica.
Diceva che lo faceva per un suo amico.
Già. Certo.
L’ho incontrato ieri, dopo anni che non ci vedevamo.
- Ciao!
- Ciao.
- Da quanto tempo!
- Eh, sì.
- Come va? Cosa stai facendo?
- Studio.
Mi guarda, gli occhi spalancati. Si mette a posto gli occhiali. Tossicchia.
- Quanti anni è che hai?, mi fa.
- Ventotto.
- Ah.
Lo vedo soddisfatto. Si accende una sigaretta. Si appoggia al muro.
- Saranno contenti i tuoi genitori – dice – quando torni a casa e dici che ti hanno bocciato a un esame! – ride. Poi si ferma. Poi ride di più. Così, da solo.
- Gli esami li ho finiti. Sto per laurearmi.
- Be’ dai. Con calma, eh?
Lo vedo toccarsi la barba. Gli sono caduti tutti i capelli, ha in testa qualche ricciolo di peli isolati. In questa fase da aranciameccanica in cui mi ritrovo, ho una pazienza limitiatissima.
- Cos’è che fai?
- Lettere.
- Ah. – dice – quindi dopo… futuro assicurato, eh!? C’hai lavoro sicuro!
Ride di nuovo. Rido anche io per distrarlo e trovare l’angolazione giusta da cui tirargli una testata. Intanto mi avvicino. Cerco di non essere minaccioso. Ha ha ha. Che bella battuta!
Mi trattengo.
- E tu? Che stai facendo? – gli chiedo
- Sono disoccupato.