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“Io e te, Thomas, abbiamo un problema”, dici, “Dobbiamo parlare.”
“Scusi, le serve aiuto?”: il commesso ti si è avvicinato silenzioso, ti si è acquattato dietro e, a tradimento, ti ha posto la domanda: “Posso darle una mano?”
“No”, dici, “sto parlando con lui” e indichi davanti a te, una pila di libri. Il commesso, con un movimento antiorario del collo, fissa gli occhi sul libro; con lo stesso movimento del collo, ma in senso orario, guarda te: con lo sguardo leggermente annacquato, fa un passo indietro. Poi un altro. Un altro ancora. Afferra il telefono. Schiaccia un bottone rosso. Ti sembra che un nuovo ronzio si diffonda nella libreria, sotto la musica. Il commesso, al telefono, dice: “Sì”, dice, “Ce n’è un altro”, tiene la mano a coppa sulla cornetta come per non farsi sentire, ma si sente benissimo “Sì. Ancora Pynchon. Cosa devo fare?”, annuisce, “Capisco. Sì. Lo lascio fare. Sì. Se sbraita chiamo la squadra anti-Pynchon. Sì. Ok.”
Tu intanto hai ripreso a fissare L’arcobaleno della gravità. E lui, l’arcobaleno – edizione economica – ti osserva imperturbabile. Ha una copertina orribile. “Ti sconfiggerò” dici “Ti lacererò, ti squarterò, ti straccerò, ti massacrerò, ti macellerò, ti leggerò” dici, a denti stretti. E L’arcobaleno: imperturbabile. “Ti macererò, ti sottolinerò, ti insalaterò, ti delegalizzerò, ti deatomicizzerò, ti trasgenizzerò, ti racabezzerò, ti opporozzerò, ti ufferizzerò, ti looppolizzerò, ti huxerizzerò, ti kuyzzwerizzerò!” dici “Ti yiiyzzererò, ti kzzererò, ti xzzererò, ti azzererò, ti bzzererò, ti czzererò! ti zzzererò!” dici. E lui, l’arcobaleno: imperturbabile. La sua imperturbabilità ti perturba e infastidisce. E’ il caso di passare alle maniere forti. Lo sollevi (e la colonna in cui è impilato si dimezza) ma nel momento stesso in cui lo sollevi ti viene il singhiozzo. Lo sfogli e il singhiozzo aumenta. Leggi due righe e il singhiozzo si fa veloce, quasi non riesci a respirare. Appoggi il libro: il singhiozzo passa. Lo riprendi: riprende anche il singhiozzo. Lo lasci: il singhiozzo svanisce. “Non si preoccupi” dice il commesso, che si era nascosto dietro una pila di Benni, “E’ normale.”, dice avvicinandosi. “Cioè?”, chiedi. “Cioè guardi.” dice. Si avvicina, prende il libro e inizia a sternutire. Uno sternuto. Due sternuti. Tre sternuti. Quattro sternuti. Lo appoggia. Non sternutisce più. “Io ci sono abituato, ma a certi fa venire la febbre a trentanove solo a guardarlo. Un mio collega ne ha letto metà e l’hanno dovuto ricoverare per un intervento alla prostata. Aveva ventitre anni.”

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o...
Se una notte d'inverno lo spazzolino elettrico di tuo figlio si anima di vita propra senza nessun apparente motivo e tu e tua moglie vi trovate in bagno, assonnati, per capire da dove proviene quella vibrazione e in quel momento, dallo scarico del lavandino un gorgoglio rauco esala una risata che richiama alla memoria una brutta storia mai del tutto chiusa, allora, ecco, forse qualcosa si sta agitando; ma non qui: di qua . So che non dovrei farlo.