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Ho certi amici che solo con uno sguardo hanno una precisa misura del peso degli oggetti: se gli appoggi un mazzo di spaghetti in mano, loro, senza la minima indecisione, ti dicono: “centododici grammi, vigola sette; no… aspetta: virgola otto”. Io, invece, ho bisogno di bilance e contrappesi; un mazzo di spaghetti in mano a me pesa sempre mah etti e boh grammi. Che ne so di quanti sono tre chili e mezzo?

Alla televisione è appena finito il telegiornale; mia madre si avvicina di soppiatto – un po’ curva, come se stesse camminando dietro un muro non abbastanza alto da nasconderla interamente – sussurra: vieni, vieni. La seguo e lei dice: sta giù. Accendo la luce in cucina e lei: spegni la luce. Ci appostiamo in balcone, al buio. Dal condominio di fronte, secondo piano, un uomo e una donna stanno litigando. “Io chiamo la polizia” dice mia madre “Se lui la tocca, io chiamo la polizia” Intanto vediamo delle ombre muoversi dietro le luci della finestra, sentiamo delle urla del tipo: lui: “ti ammazzo!” lei: “metti giù il coltello, tu non ammazzi nessuno”; lui: “vattene di qui”; lei “questa è anche casa mia”; “ti ammazzo!”; “Se mi metti le mani addosso, ti ammazzo io” – Poi parte un vaso che sbatte contro il vetro della finestra chiusa, ma la finestra non si rompe e neppure il vaso. Mia madre chiama la polizia.

Il giorno dopo, sto scrivendo un'e.mail quando sento dal salotto: “Ale sconnettiti!” “Eh?” “Sconnettiti che è urgente!” “Che succede?” “Devo chiamare Raitre!” “Cosa?” “Devo chiamare Mi manda Raitre” “Ma per cosa?” “L’inquinamento acustico! sconnettiti!”. Questa, dell’inquinamento acustico, non c’entra nulla con la storia precedente, giuro, è un’altra faccenda.

Allora, tre chili e mezzo sono:
- due bottiglie e un quarto di acqua Fonte Guizza (tra le più gassose dell'universo) compresa la plastica
- due bottiglie e tre quarti di Cabernet Franc, compreso il vetro
- il mio polpaccio, probabilmente, compreso il piede e parte del ginocchio
- sei confezioni da otto teste di aglio cinese, compreso il packaging di nylon e cartone, più quattro teste d’aglio sciolte e tre spicchi
- diciannove rotoli di carta scottex
- un nipote appena nato (praticamente un bisonte)

- Ma senti – mi dice mia sorella – tu come lo chiameresti?
- Io, a dirti la verità, lo chiamerei Strelnik
- Eh?
- Strelnik; non ti sembra un bel nome? Con la K finale, che fa un po’ Diabolik, un po’ Satanik, un po’ fumetto horror degli anni settanta
- Mah, non so
- Non ti piace? Allora: Strelnikov, che ne dici? Non è un nome al quale si deve per forza voler bene?
- Mi sa che devo andare
- Dai, non ti piace Strelnikov? con quel tono russo da rivoluzionario, la v finale, un nome importante!
- Si sta contorcento, oddio, si sta rigirando, devo andare.
- Allora senti questo: Strelnikovblog, che te ne pare? Diventerà un mito tra i suoi amici!
- Ciao
- Pensaci!
Strel', io la proposta l’ho fatta, se poi mia sorella ha scelto per Emiliano sono fattacci suoi.

Insomma sono diventato zio. Devo cominciare a nascondere i fumetti.

p.s volevo parlare anche del paradosso di Russel, ma sarà per un'altra volta, che devo andare a Lucca.

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o
Novembre 1936 – paul éluard (traduzione: Franco Fortini) Guardateli al lavoro i costruttori di macerie sono ricchi pazienti neri ordinati idioti ma fanno quel che possono per esser soli al mondo stanno agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco piegano fino a terra palazzi senza capo. A tutto ci si abitua ma a questi uccelli di piombo no ma non al loro odio per tutto quel che luccica non a lasciarli passare. Parlate del cielo e il cielo si vuota poco ci importa l’autunno i nostri padroni hanno pestato i piedi noi l’abbiamo dimenticato l’autunno dimenticheremo i padroni. Città secca oceano d’una goccia scampata di un unico diamante coltivato alla luce Madrid città fraterna a chi ha patito lo spaventoso bene che nega essere esempio a chi ha patito l’angoscia indispensabile perché splenda quel bene. E alla sua verità salga la bocca raro alito sorriso come rotta catena e l’uomo liberato dal suo passato assurdo levi innanzi ai fratelli un volto eguale