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Sei in pieno trip da SigurRoss! Attento! (SigurRoss:
già il nome, senti come suona così islandesamente minaccioso!)

Primo maggio 2003. Mattina.

In giro con tua nonna. Nella tasca della giacca trovi: una busta monouso di maionese, una busta monouso di ketcup, un tappo di sughero, una busta monouso di aceto balsamico. Nello zaino trovi: un portasalviette rosso, pieno di salviette. Nel taschino della giacca, quello in alto, sul petto, trovi, per caso, dopo mezz’ora, un’altra bustina monouso di maionese.
Aperta.
Vuota.
Il terrore si impossessa di te.
E la maionese? ti chiedi. Dov’è finita la maionese?
Non hai il coraggio di infilare la mano nell’unica tasca che ti è rimasta da controllare. Dici: SigurRòss, come fosse un’imprecazione. Dici due volte: WhiteStripes pronunciando: uìte-strìpes, prima, uàit-stràips, poi.
A quel punto tua nonna, guardandoti, fa un passo di lato, allontanandosi da te. Bisbiglia qualcosa all’orecchio di tua madre. Tua madre scuote la testa. Tuo padre scuote la testa. Tua sorella scuote la testa. Il marito di tua sorella scuote la testa. Il cane del marito di tua sorella scuote la testa. I passanti scuotono la testa. Tutto il paese scuote la testa.

Anche i SigurRoss scuotono la testa.

Cleptomania.

Da sbronzo, nei posti in cui ti senti a disagio, hai degli attacchi di cleptomania.
Quello che puoi arraffare, arraffi. La maionese, per esempio. E il portasalviette, per esempio.

O anche, per esempio:
a Barcellona, in un bar dove la birra costava troppo, hai avuto la splendente idea di rubare un posacenere di vetro. Il posacenere pesava come minimo 200 chili. L’hai nascosto, barcollante, nella manica della giacca. Intanto, con l’altra mano, tenevi il bicchiere di birra. Contemporaneamente, con lo sguardo, sguardavi il barista. Nello stesso istante, il barista sguardava te che lo sguardavi in un goffo tentativo di cleptomanargli il posacenere elefantiaco. Dopo aver infilato il posacenere nella manica con una tale grazia che tutti, all’interno del bar, ti avevano visto, hai avuto come il sospetto di essere stato sgamato. In balia della paranoia, hai deciso di rimettere il posacenere al suo posto.
Con calma, ti sei detto,molta calma.
Il barista, intanto, continuava ad osservarti. Ti indicava, con un ghigno, alla collega barista. I due erano appoggiati ad un angolo dietro il banco. Il tuo amico, di fianco a te, beveva in silenzio, meditando vendette e bestemmie. Tu, come si diceva, in preda alla paranoia, nella destra stringevi il bicchiere di birra mezzo vuoto. La testa ti cascava in avanti. Nella mano sinistra: una tonnellata di posacenere. Il posacenere era nascosta dentro la manica della giacca e ti faceva assumere una postura sbilenca, con le spalle a precipizio, inclinate verso sinistra, la testa a fare da contrappeso piegata a destra; la manica sinistra lunghissima da cui sporgeva una cunetta di vetro blu, la manica destra cortissima, quasi alzata sul gomito. Con calma, con lentezza, sorridendo al barista, cercando di attirare la sua attenzione su qualcos’altro - senza sapere su cosa e quindi concentrandola su di te - hai sollevato il posacenere e l’hai appoggiato al banco. Sì, ecco: appoggiato non è proprio la parola giusta. Perché il posacenere, subito dopo averlo appoggiato, ha fatto un rumore fortissimo, come se si fosse rotto all’improvviso in mille pezzi. E poi silenzio. E anche la musica non c’era più. Oh hai detto; Oh ha detto il tuo amico. Oh, Oh hai detto, guardando i milioni di pezzi di vetro blu sparsi sul pavimento. Poi hai tentato di mimare al barista una scenetta nella quale tu, sobrio completo, per sbaglio (e, soprattutto, non per colpa tua, ma dell’infido posacenere che era posizionato troppo vicino a te) avevi sgomitato sul banco per pulire una macchia che ti dava fastidio e, fatto questo, avevi sospinto inavvertitamente qualcosa per terra. Qualcosa di pesante: di pesantissimo; tanto pesante che ti eri fatto male al gomito. Insomma, eri anche un po’ scocciato. Solo che nelle tue condizioni sembravi, mimando, una specie di rana che non avesse più il contatto col terreno: annaspavi e agitavi le braccia, rischiando di far cadere bicchieri, di mutilare persone, di fare un occhio nero al tuo vicino di sedia. (Che intanto, in un orecchio, ti diceva Andiamo, va, andiamo e anche Cretino e scuoteva la testa, guardando il barista, che scuoteva la testa a sua volta e guardava te.)

Primo maggio 2003. Sera.

Con A. a prendere un kebab. Vi accorgete di essere vestiti uguali: gli stessi colori: maglietta blu, pantaloni verdi. La stessa tonalità di blu, la stessa tonalità di verde. Solo che sembrate usciti da una di quelle pubblicità di detersivi: due amici con gli stessi abiti: uno usa il detersivo giusto, e ha dei colori vivaci, l’altro usa il detersivo sbagliato, e i suoi colori sono mooolto più stinti.

Ti devo proprio dire chi di voi due usa il detersivo sbagliato?

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