Ho in mano una scatola bianca di cartone; la rigiro tra le dita e la guardo tenendola a una certa distanza, perplesso, più che altro, perché non ricordo di averla presa. U, intanto, smanetta con l’accensione della vespa. Il fanale dà un barlume, il motore accenna una partenza, niente più.
“Avevo il casco, prima?”, chiede.
“No” dico, “mi sa di no.”
“Allora è nel bauletto.” mi guarda. Mi guarda la mano per qualche secondo.
Poi: “Cosa ci fai con la mia scatola dei filtri in mano?”
“Ah, ecco cos’era. Vuoi che ci provi io?”
“Sì”, dice.
E io, che non ho neppure la patente, mi atteggio a meccanico provetto, esperto in moto motorini vespe, cinquantini centoventicinque cinquecento, macchine di varie cilindrate, trattori, gommoni, motoscafi, elicotteri, shuttle e falciatrici.
“E’ ingolfata”, dico professionale.
In strada, nessuno. Ai piedi del cavalcavia mi chiedo come ha fatto la vespa ad abbandonarci, non ricordo come si è spenta. Ricordo che U mi stava tirando, tentando di tenere la traiettoria più dritta possibile. Poi ricordo di aver appoggiato la bici e di essermi trovato in mano la scatola bianca dei filtri. Sono le quattro di mattina.
Passa una moto, la vediamo fare un’inversione. “Serve una mano?” “Eh” diciamo. Il tizo smonta, non si toglie neppure il casco e con due colpi di pedale ci riaccende la vespa. Poi la spegne. “Aspettate un attimo, prima di ripartire.” ci fa. Si toglie il casco, si siede sulla transenna. “Siete andati, eh? Avete bevuto?” “Eh, un po’. Si sente dall’alito?” “No, no, si vede proprio.” Si accende una sigaretta. Ha delle mani enormi, dita a mazzocchetta. Parliamo di cucina. Agriturismi. Finti agriturismi. Cucina greca. Il tipo, che si chiama Fabio, o Filippo, ci racconta che è stato a mangiare in un bel posto, dove hanno del buon vino. “Si spende un po’, ma c’è un buon servizio: ti mettono la tovaglia bella, il bicchiere a calice, i camerieri sono gentili”.
U esprime anche il mio pensiero quando dice: “Chi cazzo se ne incula del servizio.” o qualcosa del genere. Fabio fa una mossa tipicamente padovana: gli dà ragione per poi riaffermare il concetto precedente. “Sì, hai ragione.” dice “Però il servizio conta.”
Ogni secondo che passa mi aspetto che se ne vada. Immagino che non ci possa sopportare. Che debba andare a casa. Chi glielo fa fare di rimanere a parlare con noi di agriturismi alle quattro di notte? Invece sta appollaiato sulla transenna. Fuma. Offre cicche. Sembra sempre sul punto di voler dire qualcosa di importante, di fondamentale della sua vita. Sembra che da un momento all’altro si debba confessare con noi. Invece ci parla solo di cucina. Cucina italiana uber alles.
Mi si chiudono gli occhi. Prendo la bici. Lui capisce. Si alza. Ci riaccende la vespa. Poi scappa. Naturalmente, appena scompare, la vespa si spegne.
Poi, non so come, ci ritroviamo per terra. Io, U, la mia bici, la vespa. Per terra.
“Avevo addosso il casco, prima?”
“No” dico “Mi sembra di no.”
“Avevo il casco, prima?”, chiede.
“No” dico, “mi sa di no.”
“Allora è nel bauletto.” mi guarda. Mi guarda la mano per qualche secondo.
Poi: “Cosa ci fai con la mia scatola dei filtri in mano?”
“Ah, ecco cos’era. Vuoi che ci provi io?”
“Sì”, dice.
E io, che non ho neppure la patente, mi atteggio a meccanico provetto, esperto in moto motorini vespe, cinquantini centoventicinque cinquecento, macchine di varie cilindrate, trattori, gommoni, motoscafi, elicotteri, shuttle e falciatrici.
“E’ ingolfata”, dico professionale.
In strada, nessuno. Ai piedi del cavalcavia mi chiedo come ha fatto la vespa ad abbandonarci, non ricordo come si è spenta. Ricordo che U mi stava tirando, tentando di tenere la traiettoria più dritta possibile. Poi ricordo di aver appoggiato la bici e di essermi trovato in mano la scatola bianca dei filtri. Sono le quattro di mattina.
Passa una moto, la vediamo fare un’inversione. “Serve una mano?” “Eh” diciamo. Il tizo smonta, non si toglie neppure il casco e con due colpi di pedale ci riaccende la vespa. Poi la spegne. “Aspettate un attimo, prima di ripartire.” ci fa. Si toglie il casco, si siede sulla transenna. “Siete andati, eh? Avete bevuto?” “Eh, un po’. Si sente dall’alito?” “No, no, si vede proprio.” Si accende una sigaretta. Ha delle mani enormi, dita a mazzocchetta. Parliamo di cucina. Agriturismi. Finti agriturismi. Cucina greca. Il tipo, che si chiama Fabio, o Filippo, ci racconta che è stato a mangiare in un bel posto, dove hanno del buon vino. “Si spende un po’, ma c’è un buon servizio: ti mettono la tovaglia bella, il bicchiere a calice, i camerieri sono gentili”.
U esprime anche il mio pensiero quando dice: “Chi cazzo se ne incula del servizio.” o qualcosa del genere. Fabio fa una mossa tipicamente padovana: gli dà ragione per poi riaffermare il concetto precedente. “Sì, hai ragione.” dice “Però il servizio conta.”
Ogni secondo che passa mi aspetto che se ne vada. Immagino che non ci possa sopportare. Che debba andare a casa. Chi glielo fa fare di rimanere a parlare con noi di agriturismi alle quattro di notte? Invece sta appollaiato sulla transenna. Fuma. Offre cicche. Sembra sempre sul punto di voler dire qualcosa di importante, di fondamentale della sua vita. Sembra che da un momento all’altro si debba confessare con noi. Invece ci parla solo di cucina. Cucina italiana uber alles.
Mi si chiudono gli occhi. Prendo la bici. Lui capisce. Si alza. Ci riaccende la vespa. Poi scappa. Naturalmente, appena scompare, la vespa si spegne.
Poi, non so come, ci ritroviamo per terra. Io, U, la mia bici, la vespa. Per terra.
“Avevo addosso il casco, prima?”
“No” dico “Mi sembra di no.”