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Il freddo di questi giorni è inquietante. Ti schiaccia verso terra, aumenta la gravità del suolo. Il freddo atterra le spalle, fa chinare il collo e la testa. Questa diventerà presto una città di gobbi, se continua così. Una città semideserta, abitata solo da gobbi che salutano le ombre di altri gobbi. Gobbi che non si guardano mai in faccia. Le osservazioni si baseranno solo sul movimento delle scarpe e dei piedi. Si dirà: “Che hai? Ti vedo triste. C’hai le scarpe con le punte in dentro.” Oppure: “Ti sei appena svegliato? Si vedono i segni del materasso sui tuoi lacci.”
E cose così.

Mia madre, dopo aver passato tutto il pomeriggio a cercare il pulsante dell’autodistruzione del suo nuovo e già complicato cellulare; dopo avermi chiesto un paio di volte come si accende, come si spegne, come si risponde, come si scrivono i messaggi, come si inseriscono i numeri nella rubrica, cos’è un pin, cos’è un puck, dov’è adesso la rubrica, perché non c’è snake sul suo cellulare; dopo aver deciso che ormai lei è entrata nell’era delle telecomunicazioni e io no, sfigato, perché io sono ancora sprovvisto di cellulare; mia madre, dopo tutto questo, mi punta addosso una bottiglia vuota di plastica e con l’altra mano su un fianco mi dice, mentre sono al computer a fissare intontito il monitor, mi dice: “Guarda”, mi dice minacciosissima: “che Padova è una delle città più calde d’Italia.” e se ne va.

Il freddo di questi giorni è vagamente implodente. Camminare diventa un arrancare vischioso in un alone di freddo. Il sudore evapora, ma non si solleva dal corpo, crea attorno alla pelle una barriera di goccioline alta cinque centimentri che si muove con te, respira con te, parla con te. La traspirazione, con tutto questo gelo, avviene al contrario: il sudore, da fuori, ti circonda perché vuole ritornare dentro.

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o
Novembre 1936 – paul éluard (traduzione: Franco Fortini) Guardateli al lavoro i costruttori di macerie sono ricchi pazienti neri ordinati idioti ma fanno quel che possono per esser soli al mondo stanno agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco piegano fino a terra palazzi senza capo. A tutto ci si abitua ma a questi uccelli di piombo no ma non al loro odio per tutto quel che luccica non a lasciarli passare. Parlate del cielo e il cielo si vuota poco ci importa l’autunno i nostri padroni hanno pestato i piedi noi l’abbiamo dimenticato l’autunno dimenticheremo i padroni. Città secca oceano d’una goccia scampata di un unico diamante coltivato alla luce Madrid città fraterna a chi ha patito lo spaventoso bene che nega essere esempio a chi ha patito l’angoscia indispensabile perché splenda quel bene. E alla sua verità salga la bocca raro alito sorriso come rotta catena e l’uomo liberato dal suo passato assurdo levi innanzi ai fratelli un volto eguale