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Diario da Tel Aviv di Manuela Dviri (scrittrice israeliana) dal Corriere della Sera

Quell’ufficiale non mi ruberà i miei ideali

«Andate andate soldatini che il buon nonno Sharon vi porta a combattere bambini, a uccidere, a morire, e a tornare a casa in pezzettini...», scandiva oggi a mezzogiorno, sotto un sole cocente, un gruppo di ragazzi imbrattati di sangue finto davanti al ministero della Difesa. Dalle automobili che passavano arrivava di tutto, dai sorrisi di incoraggiamento alle minacce («Speriamo che venga un palestinese e vi faccia fuori tutti»). Gli israeliani, si sa, son di sangue caldo. Domani ci sarà un'altra dimostrazione, che partirà dalla piazza a nome Rabin, e domenica un'altra ancora. Nei cimiteri militari hanno sepolto cinque soldati. E a Tel Aviv la vita sta tornando, lentamente, a una specie di cauta normalità. Tre, quattro giorni senza attentati e un po' di sole e già tutti al ristorante, al mare, per la strada. Io invece sono di umore nero. Non voglio tornare a nessun tipo di falsa normalità. Sono rabbiosa. Se fosse per me nell'elicottero per portare via Arafat, infilerei anche Sharon e Mofaz, il capo di Stato maggiore. E poi ci metterei volentieri anche Effi Eitam, da oggi il nuovo capo del partito religioso «Mafdal» (che una volta era moderato, ed è diventato più falco dei falchi). Conosco bene Effi. Era ufficiale di mio figlio Joni, ha mangiato a casa nostra, ha persino parlato al cimitero all'anniversario della sua morte. Sapevo che era di destra, ma le sue ultime dichiarazioni mi hanno lasciato attonita. Mi sono offesa, quasi mi volesse portare via i miei ideali, il mio mondo, il «mio» Israele, il mio ebraismo, la ragione della morte del mio ragazzino, la mia sofferenza. Tutto. L'ho chiamato a casa. Non c'era. Sua moglie mi ha risposto al telefono e subito mi ha detto senza tanti preamboli: «Questo è un giorno di lutto per te, immagino, certo non sei soddisfatta dell'elezione di mio marito. Mi dispiace per te, ma questo è un Paese democratico, ricordatelo, e in un Paese democratico devi accettare le decisioni della maggioranza. Se per te sono inaccettabili, o immorali, puoi sempre andartene. Torna in Italia». E per una volta tanto, sono rimasta senza parole. Poi però mi sono ripresa e le ho risposto: «Israele è anche mio e non me lo porti via. Perché non te ne vai tu, invece?». *scrittrice israeliana

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o...
Se una notte d'inverno lo spazzolino elettrico di tuo figlio si anima di vita propra senza nessun apparente motivo e tu e tua moglie vi trovate in bagno, assonnati, per capire da dove proviene quella vibrazione e in quel momento, dallo scarico del lavandino un gorgoglio rauco esala una risata che richiama alla memoria una brutta storia mai del tutto chiusa, allora, ecco, forse qualcosa si sta agitando; ma non qui: di qua . So che non dovrei farlo.