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Da tre giorni qualcosa dietro l’occhio destro punge e pulsa. Sento il dolore anche ai bordi delle palpebre. Chiudo l’occhio, lo riapro. Chiudo l’altro occhio e lo sguardo si offusca come se non avessi gli occhiali, i margini si sfaldano, i contorni degli oggetti si mischiano, le distanze si appiattiscono come se la terza dimensione fosse il soffietto di una fisarmonica che si chiude. Se riapro l’altro occhio all’improvviso, per un attimo mi gira la testa: come se, per riequilibrarsi, lo sguardo si travasasse da un occhio all’altro; invece è solo l’occhio sinistro che riprende il possesso della vista globale. Come se. Se. Se. Come.

Salita sul treno, dalla porta ancora aperta, A. mi domandò se le avevo fatto l’occhiolino.
- Mi hai strizzato l’occhio.
Non proprio una domanda. Una constatazione.
- No – le dissi, io – Odio le persone che strizzano l’occhio.
- Ma ti ho visto! Hai chiuso l’occhio destro. – disse.
La gente, attorno, continuava a salire sull’interregionale per Mestre. Il binario era un cantiere: assi di legno sul pavimento, polvere, pavimenti sfasciati, intere zone recintate da muri di plastica arancione.
- Non è possibile. Non sopporto le persone che fanno l’occhiolino. Non le reggo.
- Be’ allora hai un tic.
- Non ho un tic.
- Hai un tiiic! Hai un tiiiiiic!
- Non ho un tic. E non faccio l’occhiolino.
- Haaaai uuuuun tiiiiiiiiiiiic!
- Smettila.
- Tiiiiic! Tic tic TIC!
- Vuoi smetterla? Non ho un tic.
- Ok, va bene. La smetto.
- Tra quanto arrivi?
- L’hai fatto di nuovo! L’hai fatto di nuovo! TIIIIIC! TIIIIIIIIIIIIC!

Non mi ricordo dove volevo andare con questa storia. Comunque non ho un tic. E davanti al treno le assi erano talmente messe male che nell’ordine: un signore grasso vestito di blu, una signora con le zeppe, una signora larga e bassa con una borsa di paglia, un uomo normale con un cappello grigio, un ragazzo con lo zaino verde, un tipo di carnagione scura con la barba incolta, un’insegnante di matematica, una ragazza che sicuramente - dalla faccia - doveva chiamarsi Annaluisa; tutti questi nell’ordine inciamparono sull’asse subito dopo gli scalini e rischiarono di spaccarsi il naso, ma non se lo spaccarono. E io non ho un tic. E il treno a un certo punto partì con A. dietro i finestrini chiusi che mimava con la bocca: (lo devo proprio scrivere?)

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o...
Se una notte d'inverno lo spazzolino elettrico di tuo figlio si anima di vita propra senza nessun apparente motivo e tu e tua moglie vi trovate in bagno, assonnati, per capire da dove proviene quella vibrazione e in quel momento, dallo scarico del lavandino un gorgoglio rauco esala una risata che richiama alla memoria una brutta storia mai del tutto chiusa, allora, ecco, forse qualcosa si sta agitando; ma non qui: di qua . So che non dovrei farlo.