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Arrivi in biblioteca che sembri un facchino - altro che.

Una tracolla e una borsa a mano. Nella borsa c’è il portatile. Col portatile ti senti finalmente professionale. Nordesticamente professionale. Imperativamente professionale. Guardatemi!, pensi, Guardate, quanto professionale sono. Sono o non sono professionale?, pensi pedalando, Sembro o non sembro un professionista? – e tieni la borsa con la mano destra e solo con la destra perché a sinistra c’è l’unico freno funzionante della bici. La borsa - mentre pensi alla tua superba professionalità, al fatto che solo per andare in giro così professionalmente dovrebbero pagarti un tanto al metro, perché alzi il livello medio di professionalità dalla tua città e quindi in qualche modo influisci sul PIL nazionale - ti sloga la spalla, ti sbilancia, ti inclina sbilenco.
Uno sbilenco professionale, però sbilenco (però professionale).

Arrivi in biblioteca. Lucchetti la bici. E senti un odore. Un odore acido, come di piscio di gatto. Cammini e l’odore ti segue. Ti avvolge. Annusi. Ne ricerchi l’origine: scopri che l’origine sei tu. O meglio: la tua maglietta. Le cose sono due: o il tuo sudore è marcito per il troppo alcool maturato in un decennio di bevute, o qualche gatto si è infiltrato in camera e ti ha pisciato sulla maglietta. E’ sicuramente la seconda ipotesi: qualche gatto si è infilato attraverso le tapparelle sbarrate, attraverso le finestre sigillate e ti ha pisciato sulla maglietta. E tu non te ne sei accorto. Un’orda di gatti notturni e silenziosi, una fila di gatti che si è arrampicata sul tuo balcone, si è fatta strada tra le piante, si è infilata spettralmente negli infissi, si è bilanciata nel disordine della tua scrivania senza far cadere nulla e infine ti ha pisciato sulla maglietta per marcare il territorio. (E’ noto che i gatti invidiano le tue magliette.) Stupidi gatti. E tu? Tu, mentre milioni di gatti in fila per uno facevano la coda attraverso la città per arrivare a marcare la tua maglietta, una fila immensa che neanche ai bagni di un concerto dei Rolling Stones, una fila di gatti di tutto il veneto, da tutta Europa, gatti che avevano attraversato l’oceano solo per pisciarti sulla maglietta e renderti quindi socialmente infrequentabile, più infrequentabile del solito, nonostante tutta la tua nuova professionalità, tu: tu dov’eri?

Tu stavi sognando.

Nel sogno eri un uomo, eri una donna. Cioè vedevi un uomo e una donna, assieme, dall’alto, distesi. Lui sopra, di spalle. Lei sotto: ne vedevi il viso. Sentivi le sensazioni di lui. Pensavi i pensieri di lei. Contemporaneamente. Fisicamente eri lui, psicologicamente eri lei. Lei era un’attrice. Prima – poco prima – qualcuno aveva detto di lei che si era rifatta la verginità chirurgicamente.

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UNA QUESTIONE DI LESSICO (ovvero: e mo' che faccio? cambio nome?) Dove si scopre che il limite della propria cialtroneria è sempre un po' più in là rispetto a dove lo si sospetti. (tratto da questi commenti al blog di giuliomozzi ) (...) Brèkane. Chissà dove ha preso quel nome da cattivo di cartone animato giapponese tipo Goldrake. Posted by Raspberry at 21.07.04 01:41 Ehm, be', il nome... il cattivo di un cartone animato giapponese ancora non me l'aveva detto nessuno... comunque, brekane (o meglio "breccane") è la parola veneta per ortiche. In sè non vuol dire nulla, ma qui "andare a breccane" significa - oltre che "andare così lontano che ci sono solo le ortiche", cioè (con un'altra perfetta locuzione locale) "andare in tanta mona" - anche "divagare, uscire dal discorso". Posted by brekane at 21.07.04 08:52 Ma le brecane non sono le eriche selvatiche? Posted by Mro at 21.07.04 18:36 o
Novembre 1936 – paul éluard (traduzione: Franco Fortini) Guardateli al lavoro i costruttori di macerie sono ricchi pazienti neri ordinati idioti ma fanno quel che possono per esser soli al mondo stanno agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco piegano fino a terra palazzi senza capo. A tutto ci si abitua ma a questi uccelli di piombo no ma non al loro odio per tutto quel che luccica non a lasciarli passare. Parlate del cielo e il cielo si vuota poco ci importa l’autunno i nostri padroni hanno pestato i piedi noi l’abbiamo dimenticato l’autunno dimenticheremo i padroni. Città secca oceano d’una goccia scampata di un unico diamante coltivato alla luce Madrid città fraterna a chi ha patito lo spaventoso bene che nega essere esempio a chi ha patito l’angoscia indispensabile perché splenda quel bene. E alla sua verità salga la bocca raro alito sorriso come rotta catena e l’uomo liberato dal suo passato assurdo levi innanzi ai fratelli un volto eguale