In questi giorni le canzoni mi si appiccicano alla lingua come certe patatine che se le tieni in bocca senza masticarle ti frizzicano le papille, ti si macerano da sole.
E ripeto i ritornelli per delle ore, fino a quando qualche altra canzone non stappa via l’altra.
Canto da solo ritornelli di cui so solo una parola. Sembro autistico.
Intanto Ale, l’altro Ale, è partito. Da solo, per la Spagna. Ha il mio zaino, che gli ho prestato, forse il mio saccoapelo e nessuno ha notizie di lui. Segue il cammino di Santiago di Compostela. A sua madre non ha detto nulla. Le ha lasciato un biglietto con su scritto: Parto.
Pensavo le scrivesse anche la destinazione, invece no. Tornerà, se tornerà, tra un mese.
- Il corrispondente in televisione – dice mia madre – si scusava perché non aveva la cravatta.
- La cravatta?
- Sì, per il caldo. A Londra c’è un caldo mortale.
- A Londra?
- Sì all’ombra – Ride
- Ah, siamo alle freddure.
- Appunto. – Ride di più.
Poi la solita partita di calcetto. Ormai in notturna. Oggi si sudava così tanto che sembravamo tante fontane. Le gocce cadevano dai capelli, sulla fronte: gocce di sudore caldo che invece di rinfrescare scaldavano il corpo. E noi correvamo su e giù. E io correvo avanti indietro, senza prendere mai palla, schivandola, svirgolandola. La palla mi evitava consapevolmente. E durante il mio turno in porta – stavamo perdendo di un paio di gol – pensavo che le cose che faccio in questo periodo, tutte le cose che mi capitano, sono tutte più o meno così - pensavo con il sudore che zampillava – tutte le cose attorno a me sono questo correre avanti e indietro senza prendere la palla – pensavo mentre ai miei piedi si formava una pozzanghera salata, un oceano pacifico di sudore – senza prendere palla mai e perennemente nel tentativo di recuperare un punteggio a sfavore – un sentirsi sempre indietro, sempre in ritardo, a rincorrere qualcosa…
(Qui ci andrebbe una citazione del Grande Gatsby, quella sulla luce orgiastica che ci sfugge continuamente, quella sulle barche controcorrente che ci sospingono sempre nel passato, ma non me la ricordo)
Così, in porta, pensando a tutto questo, ho fatto una giravolta. E ho cominciato a girare su me stesso.
- Che fa Ale? – sentivo.
- Gira – dicevano
E io giravo. La pozzanghera ai miei piedi vorticava con me.
- Ma continua?
- Ale! – chiamavano.
- Cosa c’era in quel Rhum che avete bevuto prima di giocare?
E giravo. E gli altri si erano fermati a guardarmi, sul campetto in cemento, mi guardavano girare su me stesso.
- Ok, ragazzi, ce lo siamo giocati!
- Un’altra vittima del calcetto. – ripetevano, scuotendo la testa.
Erano fermi tutti a guardarmi, e a un certo punto il pallone si è avvicinato a me rotolando e si è messo a orbitarmi attorno. E io andavo sempre più veloce, sempre più veloce. Non mi si vedeva più, scomparivo nell’aria, si sentiva il rumore dell’aria. Vorticavo, e il pallone vorticava attorno a me, e uno a uno i miei compagni, dal più vicino al più lontano, iniziarono a vorticarmi attorno, urlando: "Smettila coglioneeeee!" Poi si staccarono le porte in metallo fissate sul cemento, mi giravano attorno, si alzavano in cerchi enormi in cielo; e poi via i muri, e via la chiesa sradicata; poi le case, gli animali, le macchine, via tutti presi dal tornado che avevo generato e di cui ero il centro.
Finchè dal campo non salì un fumo sottile. I piedi si scaldarono. E girando e girando trivellai il cemento, scavando, affondando nel suolo fino ai capelli.
E ripeto i ritornelli per delle ore, fino a quando qualche altra canzone non stappa via l’altra.
Canto da solo ritornelli di cui so solo una parola. Sembro autistico.
Intanto Ale, l’altro Ale, è partito. Da solo, per la Spagna. Ha il mio zaino, che gli ho prestato, forse il mio saccoapelo e nessuno ha notizie di lui. Segue il cammino di Santiago di Compostela. A sua madre non ha detto nulla. Le ha lasciato un biglietto con su scritto: Parto.
Pensavo le scrivesse anche la destinazione, invece no. Tornerà, se tornerà, tra un mese.
- Il corrispondente in televisione – dice mia madre – si scusava perché non aveva la cravatta.
- La cravatta?
- Sì, per il caldo. A Londra c’è un caldo mortale.
- A Londra?
- Sì all’ombra – Ride
- Ah, siamo alle freddure.
- Appunto. – Ride di più.
Poi la solita partita di calcetto. Ormai in notturna. Oggi si sudava così tanto che sembravamo tante fontane. Le gocce cadevano dai capelli, sulla fronte: gocce di sudore caldo che invece di rinfrescare scaldavano il corpo. E noi correvamo su e giù. E io correvo avanti indietro, senza prendere mai palla, schivandola, svirgolandola. La palla mi evitava consapevolmente. E durante il mio turno in porta – stavamo perdendo di un paio di gol – pensavo che le cose che faccio in questo periodo, tutte le cose che mi capitano, sono tutte più o meno così - pensavo con il sudore che zampillava – tutte le cose attorno a me sono questo correre avanti e indietro senza prendere la palla – pensavo mentre ai miei piedi si formava una pozzanghera salata, un oceano pacifico di sudore – senza prendere palla mai e perennemente nel tentativo di recuperare un punteggio a sfavore – un sentirsi sempre indietro, sempre in ritardo, a rincorrere qualcosa…
(Qui ci andrebbe una citazione del Grande Gatsby, quella sulla luce orgiastica che ci sfugge continuamente, quella sulle barche controcorrente che ci sospingono sempre nel passato, ma non me la ricordo)
Così, in porta, pensando a tutto questo, ho fatto una giravolta. E ho cominciato a girare su me stesso.
- Che fa Ale? – sentivo.
- Gira – dicevano
E io giravo. La pozzanghera ai miei piedi vorticava con me.
- Ma continua?
- Ale! – chiamavano.
- Cosa c’era in quel Rhum che avete bevuto prima di giocare?
E giravo. E gli altri si erano fermati a guardarmi, sul campetto in cemento, mi guardavano girare su me stesso.
- Ok, ragazzi, ce lo siamo giocati!
- Un’altra vittima del calcetto. – ripetevano, scuotendo la testa.
Erano fermi tutti a guardarmi, e a un certo punto il pallone si è avvicinato a me rotolando e si è messo a orbitarmi attorno. E io andavo sempre più veloce, sempre più veloce. Non mi si vedeva più, scomparivo nell’aria, si sentiva il rumore dell’aria. Vorticavo, e il pallone vorticava attorno a me, e uno a uno i miei compagni, dal più vicino al più lontano, iniziarono a vorticarmi attorno, urlando: "Smettila coglioneeeee!" Poi si staccarono le porte in metallo fissate sul cemento, mi giravano attorno, si alzavano in cerchi enormi in cielo; e poi via i muri, e via la chiesa sradicata; poi le case, gli animali, le macchine, via tutti presi dal tornado che avevo generato e di cui ero il centro.
Finchè dal campo non salì un fumo sottile. I piedi si scaldarono. E girando e girando trivellai il cemento, scavando, affondando nel suolo fino ai capelli.