Il cielo ieri si è oscurato, ma era un falso allarme. E’ tornato subito il sole e la polvere che si era alzata oltre i tetti dei palazzi è ridiscesa a coprire le strade. Tutto sembrava arido, secco, dopo. Più secco, più arido.
Mia madre, in due giorni, da sola, si è mangiata tredici chili di anguria. Compresa la buccia, penso. Non c’erano bucce nella spazzatura, questa mattina.
Il fruttivendolo indossa calzini bianchi di cotone che non arrivano a coprirgli le caviglie, e ciabatte di plastica azzurre, come quelle dei chirurghi. Sono angurie nostrane, dice, non come quelle che compri all’Auchan che vengono dalla Grecia, dalla Spagna e non si sa che cosa gli danno da bere. E’ scocciato perché gli ho detto che un’anguria costa troppo. Lui quasi mi morsica la giugulare: è che è troppo basso, se no non sarei qui a scrivere, ma disteso con una chiazza di sangue che si espande, tra le patate e le cipolle.
Patate e cipolle nostrane, naturalmente.
Il caldo fa uscire i negozianti che non hanno l’aria condizionata, o almeno un frizzer dove nascondersi, come il macellaio, che si dondola tra le carni appese a prender fresco. Le due donne della copisteria - la copisteria accanto al fruttivendolo -sono sedute una di fronte all’altra, ai due lati del marciapiede. Sono enormi e sudano. Sembrano due sfingi col viso da maiale, che controllano chiunque attraversi il loro varco. Una è vestita di nero, perché snellisce. Ma non snellisce. Se passi di qua, mi dice l’altra, indicando la vaschetta di gelato che porto a casa, assieme all’anguria, se passi di qua con quella, rischi, rischi tantissimo. Il fruttivendolo, da dietro urla: Rischi perché ti mangia tutto il gelato, compresa la vaschetta! Poi ride. Poi ammicca. Ride e ammicca. Ammicca e ride, sguaiato. E le due sfingi ridono, aprendo tutta la bocca, le gocce di sudore che si disperdono sulla frutta accanto. Sono circondato, ma approfitto della loro ilarità per scappare.
Verso casa, incontro K. K è scozzese, vive a Padova da qualche anno, insegna inglese. E’ alto e magro, ma all’altezza dell’ombelico la sua pancia prende una piega bizzarra, si ingrossa.
Guardo l’anguria, guardo la sua pancia. La forma è esattamente la stessa. Guardo K. K guarda l’anguria. K mi guarda. Guarda l’angura. Guardo la sua pancia. Guardo l’anguria. E’ per mia madre, dico, guardandolo. Ah, dice, fissando la mia anguria.
Mi saluta. Ma quando, poco dopo, mi volto, lo vedo davanti al banco del fruttivendolo, fermo.
(Non rispondi al telefono. Non rispondi. Probabilmente fai bene. Non so.)
Mia madre, in due giorni, da sola, si è mangiata tredici chili di anguria. Compresa la buccia, penso. Non c’erano bucce nella spazzatura, questa mattina.
Il fruttivendolo indossa calzini bianchi di cotone che non arrivano a coprirgli le caviglie, e ciabatte di plastica azzurre, come quelle dei chirurghi. Sono angurie nostrane, dice, non come quelle che compri all’Auchan che vengono dalla Grecia, dalla Spagna e non si sa che cosa gli danno da bere. E’ scocciato perché gli ho detto che un’anguria costa troppo. Lui quasi mi morsica la giugulare: è che è troppo basso, se no non sarei qui a scrivere, ma disteso con una chiazza di sangue che si espande, tra le patate e le cipolle.
Patate e cipolle nostrane, naturalmente.
Il caldo fa uscire i negozianti che non hanno l’aria condizionata, o almeno un frizzer dove nascondersi, come il macellaio, che si dondola tra le carni appese a prender fresco. Le due donne della copisteria - la copisteria accanto al fruttivendolo -sono sedute una di fronte all’altra, ai due lati del marciapiede. Sono enormi e sudano. Sembrano due sfingi col viso da maiale, che controllano chiunque attraversi il loro varco. Una è vestita di nero, perché snellisce. Ma non snellisce. Se passi di qua, mi dice l’altra, indicando la vaschetta di gelato che porto a casa, assieme all’anguria, se passi di qua con quella, rischi, rischi tantissimo. Il fruttivendolo, da dietro urla: Rischi perché ti mangia tutto il gelato, compresa la vaschetta! Poi ride. Poi ammicca. Ride e ammicca. Ammicca e ride, sguaiato. E le due sfingi ridono, aprendo tutta la bocca, le gocce di sudore che si disperdono sulla frutta accanto. Sono circondato, ma approfitto della loro ilarità per scappare.
Verso casa, incontro K. K è scozzese, vive a Padova da qualche anno, insegna inglese. E’ alto e magro, ma all’altezza dell’ombelico la sua pancia prende una piega bizzarra, si ingrossa.
Guardo l’anguria, guardo la sua pancia. La forma è esattamente la stessa. Guardo K. K guarda l’anguria. K mi guarda. Guarda l’angura. Guardo la sua pancia. Guardo l’anguria. E’ per mia madre, dico, guardandolo. Ah, dice, fissando la mia anguria.
Mi saluta. Ma quando, poco dopo, mi volto, lo vedo davanti al banco del fruttivendolo, fermo.
(Non rispondi al telefono. Non rispondi. Probabilmente fai bene. Non so.)